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Ombre fra le sabbie: il deserto dei Tartari e dei Barbari

L’attesa di un nemico spettrale e demonizzato, la violenza sadica, la distorsione della verità storica e attuale legano profondamente Il deserto dei Tartari e Waiting for the Barbarians. Due storie in cui tutto diventa incerto e misero fra le sabbie del deserto.

Ne Il deserto dei Tartari (Valerio Zurlini, 1976), Giovanni Drogo (Jacques Perrin) è un giovane sottoufficiale in un non meglio identificato Impero che viene inaspettatamente assegnato alla Fortezza Bastiano, ai più remoti confini imperiali. La fortezza è posta come difesa contro l’ormai mitica popolazione dei Tartari, che hanno attraversato il deserto ormai molti secoli prima e di cui si è persa ogni traccia. Qui il giovane sottotenente, inizialmente restio a rimanere, si ritrova oppresso e allo stesso tempo trattenuto dall’ossessione imposta dalla Fortezza, ossia l’attesa del nemico: i Tartari.

In Waiting for the Barbarians (Ciro Guerra, 2019), un magistrato senza nome (Mark Rylance) è preposto al governo di una provincia di frontiera di un Impero (di cui nuovamente non sappiamo il nome), dedito più alla ricerca storica e archeologica sulle popolazioni native che non alla politica o al governo di un territorio semplice e pacifico. Suo malgrado, il protagonista si trova presto ad affrontare il pesante degenerare della situazione nella sua provincia quando il violento colonnello Joll (Johnny Depp) e il suo assistente, l’ufficiale Mendel (Robert Pattinson) mettono in atto una serie di brutali attacchi armati contro le popolazioni del deserto con il chiaro scopo di creare conflitto e guerra. Lo stesso magistrato, esautorato e dichiarato colpevole di tradimento, avendo aiutato una donna abusata dai soldati, subirà ogni genere di vessazione.

Entrambi tratti da celebri romanzi Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati e Waiting for the Barbarians di J. M. Coetzee i due film, esattamente come i due romanzi, si mostrano profondamente connessi fra loro. Innanzitutto, in relazione alle figure dei Tartari/barbari, lo spettatore viene spinto verso una difficile riflessione sull’idea di verità. La lunga, interminabile attesa vissuta dal sottotenente Drogo fa sospettare della reale esistenza dei Tartari, un nemico che non attacca e di cui nessuno riesce a trovare traccia. Il dubbio si staglia da un lato sui racconti storici e dall’altro su quelli relativi all’esperienza personale di alcuni personaggi in particolare quella del Capitano Ortiz (Max Von Sydow), unico ad affermare di avere avvistato un cavaliere tartaro.

La verità diventa, inoltre, elemento estremamente malleabile nelle mani del colonnello Joll che cerca o costruisce costanti giustificazioni per le proprie azioni crudeli e repressive, inventando minacce e aggressioni da parte dei barbari. L’atteggiamento del colonnello e dell’ufficiale Mendel è infatti posto in contrasto con l’interesse archeologico del magistrato che, oltre a mostrare una grande apertura mentale nei confronti dei barbari, dimostra più nello specifico la sua particolare sensibilità verso il concetto di verità storica. Fra le prime azioni di annichilimento e aggressione nei confronti del magistrato, infatti, vi è proprio la distruzione della sua biblioteca.

In entrambi i film la fiducia o meno nella verità offerta determina comunque una serie di decisioni politiche e militari che si riveleranno tragiche. Ne Il deserto dei Tartari questo si traduce nell’inerzia che si protrae fino all’avvistamento del nemico, contro il quale nulla viene fatto fino al momento dell’attacco dei Tartari. In Waiting for the Barbarians si ha invece il risultato opposto ma egualmente drammatico con la violenta e fallimentare campagna militare contro i barbari.

Inoltre, la visione della verità in senso storico si sposa con quella riferita ai personaggi stessi in un senso, per così dire, introspettivo. Seppure in modi e vie differenti, in entrambi i lavori, questa verità si rivela ai protagonisti tramite la sofferenza, il conflitto e la violenza. Per Drogo questo avviene a causa della solitudine, della malattia e dalla profonda delusione dell’attesa tradita, tema fondamentale di tutto il film. Il magistrato-governatore, invece, compie il suo percorso di conoscenza di sé sia tramite il confronto con la donna barbara di cui si prende cura, sia attraverso il violento conflitto con Joll e Mendel e la sua conseguente, dolorosissima, prigionia. Ne Il deserto dei Tartari la violenza e il suo rapporto con la rappresentazione del vero, sono presentati in modo ancora più sofisticato. In particolare, l’erronea uccisione di uno dei soldati della fortezza e le tensioni fra soldati e ufficiali rivelano la reale natura del maggiore Matis (Giuliano Gemma) e del colonnello Filimore (Vittorio Gassman), capo della fortezza: duro e brutale il primo, debole e ipocrita il secondo. Filimore, infatti, lascia che sia il maggiore, come questi stesso gli rinfaccia, a mettere in atto le dinamiche più violente e repressive delle quali egli non può o non vuole prendersi pienamente la responsabilità.

Infine, a caratterizzare l’estetica dei due film è il deserto, con il suo ampio carico di allegorie. La pesante accidia dell’animo, l’aridità dello spirito e la sonnolenta, lunga attesa, caratterizzano la vita dei protagonisti in entrambe le storie. Miseria e sabbia e circondano l’esistenza dei protagonisti. Il malessere compenetra addirittura le polveri sedimentate nella pietra di Bastiano in cui il medico militare individua la causa della malattia di Drogo. Con inquadrature ampie e fisse, cui si aggiungono colori spenti e un montaggio lento e lineare, i due film restituiscono il senso di statica immensità che opprime l’animo dei personaggi e il loro lento logorio. La rappresentazione di questa desolazione riflette, infine, anche la frustrazione e la delusione nei confronti dell’uomo come animale sociale, sperduto e senza punti di riferimento. «Più la storia è remota più gli uomini la deformano con le loro leggende. E così la verità diventa indecifrabile», dice il capitano Ortiz. E a fronte dell’inconoscibilità del vero l’uomo organizzato si abbandona all’aggressività e alla crudeltà, alla costante ricerca di un nemico, unico modo di darsi uno scopo e una vetta cui ambire. Questo anche se, come i Tartari, il nemico non resta che un’idea o una leggenda, e infine niente di più di uno sfumato miraggio fra le sabbie e l’orizzonte.

Andrea Faraci

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