Vai al contenuto

UNA BRAVA BAMBINA

Opera di Silvia Farina.
Un brano per accompagnare la lettura:
Brano scelto da Mattia Sonzogni, editor musicale.

Sono dieci minuti che mi spazzolo i capelli e ora sono elettrizzati e gonfi. A papà non piaceranno. Lui dice che le brave bambine portano i capelli legati, ma la coda di cavallo mi fa venire mal di testa e le principesse dei cartoni i capelli li portano sciolti e lunghi.
Però se li tengo così non gli piaceranno.
Metto il cerchietto. Sì, quello azzurro con i fiorellini, quando l’ho indossato al compleanno della nonna mi ha detto che sembravo una madonnina e poi mi ha presa in braccio e messa a cavalcioni sulle sue spalle. Magari lo fa anche oggi.
Anche il cerchietto mi fa male dietro le orecchie, ma fa niente almeno posso portare i capelli sciolti.
Mi guardo ancora una volta davanti allo specchio: il colletto del vestito è a posto, le scarpe sono pulite, gli spallacci dello zaino sono della giusta misura. Quando le zie mi vedranno resteranno a bocca aperta e papà sarà fiero di me, penserà che sono la bambina più bella che abbia mai visto.
«Francesca! Carlo! Tra due minuti usciamo!» lo sento urlare dal piano di sotto e mi precipito all’ingresso.
«Sono prontissima!»
«Brava» mi risponde. Non mi ha nemmeno guardata, ma appena distoglierà lo sguardo dal cellulare se ne renderà conto, sissignore resterà sbalordito.
«Pronto!» risponde Carlo che si avvicina con passi sbilenchi alla porta.
Papà lo guarda e sorride: «Hai messo il maglione che ti ha fatto la nonna, bravo! Ti sta bene». Torna ad armeggiare col cellulare.
Carlo mordicchia le pellicine che circondano le unghie delle mani. Che idiota, quando papà lo vedrà gli tirerà uno schiaffone sul viso e si rimangerà i complimenti. I bambini per bene non mettono le dita in bocca. Carlo mi fa la linguaccia ma io non rispondo.
«Che ti guardi?» mi chiede e fa un’altra linguaccia. Io mi giro dall’altra parte, non ci parlo mica io con i maleducati.
A un tratto sento una pressione sotto la pancia e poi un leggero pizzichio. Non può essere. Cerco di non pensarci, mi volto di nuovo verso Carlo che ha cambiato mano. Niente da fare, la pressione diventa più forte. Come ho fatto a dimenticare di farla prima? Eppure ero in bagno. Faccio un respiro profondo e accenno un passo verso il corridoio.
«Fermi qui voi due, io devo fare una telefonata. Appena finisco usciamo, chi si muove le prende!».
Mi guarda fisso negli occhi e io mi pietrifico. Papà è tanto buono, non mi fa mai mancare niente, però io devo obbedire. Quando usa il tono da generale un pochino mi spavento e sento delle scosse sotto la pelle, che partono dalla parte bassa della spina dorsale e poi viaggiano fino alle punte dei piedi e ai polpastrelli delle dita delle mani.
Torno al mio posto, con un passo indietro.
Papà si dirige verso le scale e ci dà le spalle. Il corridoio si è riempito dell’odore del suo dopobarba, ne mette sempre un sacco quando usciamo. Si è messo pure le camicia, ma sembra che i vestiti buoni gli stiano scomodi, si gratta di continuo il collo e tira le ali del colletto come se volesse strapparle, alza le maniche e poi le abbassa, si tira su i pantaloni.
Improvvisamente sento che la vescica è come un palloncino d’acqua talmente pieno che sta per esplodere. Quanto può durare questa telefonata? Poco, pochissimo. Ma sì, qualche istante e poi ci mettiamo in macchina e arriviamo dalla zia Pina, e io chiederò di andare in bagno per lavare le mani.
Le bambine pulite si lavano le mani quando entrano in casa di qualcuno. Ma prima di lavare le mani faccio la pipì. Bene, è un buon piano. Però la zia Pina ha tipo un milione di anni e con lei devo parlare solo in dialetto perché l’italiano non lo capisce. Io non mi ricordo come si dice “Per favore zia, posso andare in bagno?”.
Pizzica. Cavolo se pizzica, io la devo proprio fare. Mi muovo sul posto, appoggio il peso sul piede destro e poi sul sinistro e poi sul destro e all’inizio questo balletto sembra funzionare, ma ancora pizzica.
Papà sta parlando al telefono, ride e sembra contento e io qui me la sto per fare addosso. Se solo potessi fare qualche goccia. Carlo è concentratissimo sull’indice, non riesce ad afferrare un pezzo di pelle morta e si accanisce con gli incisivi. Un modo per fare un po’ di pipì deve esserci.
Ho un pacchetto di fazzoletti nello zaino, magari se infilo, che so, tre o quattro fazzoletti nelle mutande posso farla. Sì, come quei pannolini strani che si mettono le donne certe volte, quando hanno “le cose loro”. Non ho ben capito che cos’è che hanno, però le zie hanno detto che un giorno me lo spiegano bene.
Comunque, vado dalla zia Pina e le chiedo di andare al bagno e li butto nello scarico e mi lavo le mani e papà penserà che sono proprio una brava bambina.
Carlo non mi sta guardando, papà è ancora di spalle. Sfilo un braccio dalla cinghia dello zaino, lo porto sulla pancia e apro la zip. Afferro il pacchetto di fazzoletti e rimetto lo zaino a posto. Fin qui tutto bene, movimenti lenti e misurati, e nessuno se ne accorge. Ne prendo uno, lo poggio sul palmo della mano, alzo il vestito e lo infilo nelle mutande. Vorrei già farla ma con uno è troppo pericoloso. Faccio lo stesso con il secondo fazzoletto, ma ancora non è sicuro che tenga. Mentre infilo il terzo fazzoletto, Carlo mi vede con la coda dell’occhio, si gira di scatto e urla: «Che schifo! Francesca ha le mani nelle mutande!».
Papà si volta e io sono bloccata con la mano tra le cosce, piegata in avanti con il vestito alzato.
«… ti richiamo».
Papà mette il cellulare in tasca e con passi larghi e veloci mi si para davanti. Mi guarda come si guarderebbe un piccione morto sul marciapiede, io sono pietrificata. Le scosse arrivano ai piedi, e assieme alle scosse anche un getto caldo e bagnato. I fazzoletti fradici cadono a terra, la puzza di urina riempie l’atrio e lo sguardo di papà si fa sempre più disgustato.
Si sfila la cintura, sento uno schiocco e un dolore lacerante all’altezza dei reni. Sono a terra nella mia pozza di pipì, ma lui mi solleva per il polso, mi prende a schiaffi e per un secondo vedo tutto nero. Mi fa male la testa. Mi solleva di nuovo e mi prende per i capelli, mi strattona e il cerchietto blu con i fiorellini cade. Non riesco a respirare, qualcosa di viscoso cola dalle narici, lo sento in gola, mi viene da vomitare. Sangue sul pavimento e sul dorso della mano con cui mi sono sfiorata le labbra.
«Papà, scusa».
Non so se l’ho detto davvero o se l’ho pensato o se ho provato a dirlo. Lui però mi ha urlato:
«Schifosa!».
Sono sicura che ha detto così, rimbombava nelle orecchie, poi ha detto: «Resta qui nella tua merda come i porci. Non carico in macchina le schifose e gli animali».
Esce con Carlo e sbatte la porta.

Racconto di Alessia Incampo.
Editing di Martina Costanzo e Martina Marotta.


L’autore

Alessia Incampo nasce ad Altamura nel 2001 e si sposta a Torino per inseguire il sogno della scrittura. Attualmente frequenta la Scuola Holden. Ha pubblicato un racconto per la rivista La Seppia. Scrive per mettere ordine nelle storie, soprattutto nelle sue.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.