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QUESTA PIANURA FIN DOVE SI PERDE

Opera di Silvia Farina.

Un brano per accompagnare la lettura:

Brano scelto da Mattia Sonzogni, editor musicale.

Marco osservava il paesaggio intorno a sé: la campagna verde si estendeva a perdita d’occhio. Sembrava spingersi lontano, fondendosi all’orizzonte con il cielo sereno dove alcune nubi, soffici e panciute, si muovevano lente. Senza nemmeno accorgersene, davanti alla dolcezza di quella vista, si ritrovò a canticchiare i versi de: “Il vecchio e il mare” di Guccini: l’immensa pianura sembrava arrivare, fin dove l’occhio di un uomo poteva guardare…
Aveva sempre amato la sua terra, sin da quando da bambino la nonna lo portava in bicicletta, attraverso stradine ghiaiate, a trovare la bisnonna che viveva in aperta campagna. Tornava a casa sempre lurido, spesso bagnato, perché a forza di saltare i fossi ogni tanto ci cadeva dentro. E quanto bruciavano le ginocchia sbucciate per aver rincorso le galline sul pietrino dell’aia! A volte ne prendeva di mira una e la sfiancava talmente tanto che alla poveretta crepava il cuore e stramazzava. La bisnonna allora interveniva, rapida ed efficiente, incredibilmente agile nonostante l’età. Raccoglieva la bestiola ancora tiepida, la infilava in una borsa e la consegnava alla nonna per farci il brodo.
Che infanzia meravigliosa: erano gli anni sessanta “e tutto mi sembrava andasse bene”, avrebbe poi cantato Francesco de Gregori. La gallina, ora, la compravano al supermercato, incartata in un piccolo cabaret di plastica, e di tutte le persone che avevano resa indimenticabile la sua vita di bambino, rimanevano solo le sorelle.
Riscuotendosi da quei pensieri, Marco fece per rientrare in casa. Stava aspettando i suoi amici di sempre, quelli dalle elementari in poi. Compagni di mille avventure, delle birichinate che diventano bravate, dei viaggi con la vespa e il sacco a pelo, delle zingarate a Rimini. Cercavano di trovarsi abbastanza regolarmente, a casa dell’uno o dell’altro, e sempre senza compagne o mogli. Per stare in pace, sostenevano loro, e chiacchierare sin quasi al mattino.
Era però un po’ che non si vedevano e l’ultima volta era stata un’occasione molto triste, il funerale di un’amica e compagna di scuola. L’occhio gli cadde su un vaso di Violette Saintpaulia, e gli tornò in mente che erano i suoi fiori preferiti… Si riscosse e tornò dentro.
Marco aveva acquistato anni prima una vecchia casa colonica e l’aveva restaurata con calma e maestria. Voleva crearsi un luogo dove vivere la seconda parte della sua vita, a contatto con quella natura che tanto amava, nel suo “luogo del cuore” a nord della provincia di Modena, che erano le valli mirandolesi.
Il cibo era appena stato consegnato dal ragazzo della trattoria-pizzeria. Cose semplici e locali, quindi gnocchi fritti, salumi, pinzimonio e parecchio Lambrusco. Quando gli amici cominciarono ad arrivare il sole era già tramontato dietro gli alberi in fondo al giardino e le striature colorate del cielo si riflettevano nell’acqua immobile della piscina.
Il primo fu Carlo, che era l’allodola del gruppo. Poi, alla spicciolata, Giovanni, Antonio e Andrea. Durante gli anni della loro lunghissima amicizia avevano cominciato a usare tra loro dei soprannomi che riflettessero almeno una caratteristica peculiare del carattere di ciascuno. Quindi, Andrea era il lupo, per la sua aria minacciosa e la sua intelligenza, un indiscusso capobranco; mentre Giovanni, per il suo essere sempre timoroso e incerto, era definito la lepre. Antonio infine, lui era il gatto: indipendente, piuttosto taciturno, aveva trasformato la sua usuale “don’t care attitude” in una raffinata forma di menefreghismo.
Con lo stesso appetito che avevano da adolescenti divorarono tutto, poi, con un bicchiere di nocino in mano, si misero a parlare. Gli argomenti furono mille, alcuni vennero sviscerati a lungo, altri venivano lanciati per essere abbandonati subito dopo. Infine si passò alla fase intimista. Era stato Giovanni a dare la stura, gli altri avevano capito che c’era qualcosa dentro di lui che aveva urgenza di uscire.
«Lo so che sembra banale, che lo dicono tutti… Il fatto è che, dopo aver conosciuto Sonia, ho riflettuto e…»
«Ma sentitelo, lui! Ha riflettuto!», sbottò ridacchiando Carlo. E mentre si alzava per servirsi ancora del nocino, gli mollò una pacca scherzosa sulla schiena. Antonio fece un gesto brusco con la mano, come a chiedere un po’ di calma per lasciare continuare l’amico.
Giuseppe allora riprese la parola: «Insomma, ho capito che con mia moglie non c’è più niente. Con Sonia ho ritrovato la gioia di…»
«Di scopare!» lo interruppe ancora una volta Carlo urlando. Marco fece sparire il nocino.
«Ma sì, anche» ammise Giovanni, «Però c’è molto altro, noi parliamo! Io non ho mai parlato così con una donna!».
«E tua moglie lo sa già?» fece Antonio.
«No, non lo sa, ma se lo immagina, perché non è certo una stupida». Annuirono, e poi tacquero tutti e cinque. Chi aveva ancora un po’ di nocino nel bicchiere finiva di sorseggiarlo.
Poco dopo Andrea ruppe il silenzio: «Non abbiamo più parlato di Lavinia».
«Siamo andati al suo funerale, abbiamo fatto le condoglianze ai genitori, cos’altro c’è da dire?» rispose Carlo quasi sulla difensiva.
«Beh, l’amavamo tutti, no? L’amavamo e nessuno di noi è riuscito ad averla», continuò Andrea.
Antonio lo interruppe: «Tu ne sai qualcosa, vero? Al liceo le hai fatto una corte spietata… ti è bruciato molto?».
«Beh, diciamo che l’accettazione delle sconfitte e dei rifiuti non è mai stata il mio forte. Come si suol dire: ci sto lavorando», concluse ironicamente.
«Chissà se è mai stata felice. Le sue compagne dicevano che era cordiale, disponibile, generosa, ma sempre tanto distante», aggiunse Giovanni meditabondo.
«Non si è mai sposata, chissà perché» intervenne Marco, «Era talmente bella e speciale che poteva avere chiunque.»
«Poteva avere chiunque, ma lei voleva te». Era stato Carlo a lanciare la bomba. Quattro paia di occhi si fissarono sbigottiti su di lui.
Marco balbettando disse: «Ma che cazzo dici, Carlo? Cosa ne sai tu di quello che provava lei?»
«Ti amava e ti voleva, e quando ha capito che tu non capivi, ti ha scritto una lettera e te l’ha lasciata sul banco».
«Come fai a saperlo?»
«Ma dai, era una lettera d’amore. L’ho vista mentre la lasciava sul tuo banco, Marco, ma non ci ho fatto caso…» fece Antonio.
«Invece l’ho presa io, me la sono infilata in tasca, a casa l’ho letta e ho capito che la cosa migliore era distruggerla», continuò Carlo implacabile.
«Distruggerla?!» Marco era balzato dalla sedia.
«Carlo,» cercò di inserirsi pacatamente Andrea «Non ti sembra che…»
Ma Carlo era come un torrente di montagna al disgelo, incontenibile, quasi furioso: «È stata la cosa migliore, Marco, ti avrebbe annientato. Avrebbe distrutto te e la nostra amicizia e io non ero disposto a perderla per una Lavinia qualsiasi.»
«Ma che ne sai tu? Come puoi dire che mi avrebbe annientato?»
«Perché…» e per la prima volta Carlo esitò, poi disse «Vi ricordate quella volta in terza liceo che mancò per un paio di mesi? Ecco… Mia madre era molto amica della sua e mi raccontò che Lavinia aveva cercato di suicidarsi», Carlo terminò la frase con un filo di voce, i gomiti appoggiati sulle ginocchia e la testa piegata per non guardare nessuno.
Gli amici erano immobili, lo fissavano paralizzati, quasi senza respirare.
«Lo sapevo, io non ci ho mai creduto a quella storia dell’incidente in montagna» intervenne Giovanni, «Andavamo a sciare negli stessi posti, se si fosse fatta male per davvero, l’avrei saputo».
«Infatti, si era buttata dalla finestra. I suoi la ricoverarono in una clinica e ovviamente non dissero niente a nessuno. Tornò solo a fine anno scolastico, molto magra e assente».
Al che fu Antonio a intervenire: «Mio nonno mi raccontò di aver visto la mamma di Lavinia nella clinica psichiatrica dove era stata ricoverata la nonna per l’aggravarsi dell’Alzheimer. Ma non pensavo certo che…»
Carlo riprese: «L’anno dopo sembrava stare meglio e cominciò a farti il filo, ma tu non lo hai mai capito. Io invece vi osservavo e me ne sono reso conto. Quando l’ho vista lasciarti quella lettera sul banco, l’ho presa e poi, leggendola, ho capito che avevo fatto bene».
«Ma perché?» riprese Marco, quasi afono, come se fosse senza forze.
Si intromise Giovanni: «Mia sorella maggiore ebbe un grosso esaurimento in quel periodo, il suo ragazzo l’aveva lasciata e cominciò ad andare da una psicologa. Ricordo che mi raccontava che vedeva spesso Lavinia uscire dall’ambulatorio. Un paio di volte si erano parlate e ricordo che mi diceva di avere l’impressione che Lavinia fosse veramente “fuori”».
Carlo continuò: «È così, purtroppo. La vita era spesso un peso per lei, lo diceva nella lettera, ma con il tuo aiuto era certa di poterla affrontare».
«Pericoloso, si rischia di affondare in due» chiosò Andrea.
«Proprio così, ero sconvolto da quelle parole, perché sapevo che tu avresti accettato, ti saresti sentito come il principe sul cavallo bianco. Ma lei ti avrebbe trascinato giù, avresti sacrificato tutto e tutti, anche l’università e la carriera», poi Carlo piantò i suoi occhi in quelli di Marco: «Non me ne sono mai pentito» concluse infine.
Erano tutti annichiliti, mai avrebbero immaginato Carlo capace di tenere un simile segreto per più di quarant’anni.
«Ma a lei non hai pensato? Aveva bisogno di aiuto, di qualcuno che le stesse accanto. Ci hai mai pensato?» insistette Marco.
«Certo che ci ho pensato. Sono sempre rimasto al corrente della sua situazione. Andò a stare via con la scusa dell’università lontana, ma in realtà faceva dentro e fuori da cliniche specializzate in disturbi psichici. I suoi hanno protetto in tutti i modi la sua vita. Ma ormai…» fece un’altra pausa, scosse il capo.
Antonio, Giovanni e Marco lo fissarono con un’ultima, muta domanda negli occhi. Ma fu Andrea a mettere la parola fine: «No, alla fine si è spenta in un hospice per malati terminali».
Nel silenzio assoluto e irreale della sala, rotto solo dallo scoppiettare delle fiamme, si sentì il canto stridulo di una civetta.

Racconto di Mariangela Maretti
Editing di Martina Marrone


L’autrice

Mariangela Maretti nasce a Mirandola, in provincia di Modena, nel 1963. Dopo la maturità classica si laurea a Bologna in Lingue e letterature Straniere e Moderne (Inglese e Tedesco). Lavora in aziende biomedicali della zona, collabora con una scuola privata dove insegna inglese e si occupa dell’alfabetizzazione di donne straniere.
La sua passione è la lettura, ama molto la letteratura angloamericana, i gialli scandinavi e il noir italiano. Ha sempre desiderato scrivere, poi, allo scoppio della pandemia, ha cominciato approfittando della forzata permanenza in casa. La forma narrativa che preferisce è il racconto, dove spesso unisce spunti autobiografici e trame di fantasia.

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