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PRIMO PIANO

Opera di Silvia Farina.

Un brano per accompagnare la lettura:

Brano scelto da Mattia Sonzogni, editor musicale.

La porta si apriva e si chiudeva ogni volta con un fastidioso cigolio. Era storta e pesante, come la maggior parte delle persone che quel posto lo frequentavano regolarmente.
– Che ci facciamo noi ancora qua? – Sandro non faceva che ripeterlo, ogni qual volta che qualcuno oltrepassava la soglia dell’ingresso e avanzava strisciando verso il bancone. Poi mi guardava e rideva, perché era ovvio che non potevamo essere da nessuna parte tranne che lì. Ce ne stavamo abbarbicati al muro in fondo alla stanza e, pur di non perderci il nostro primo piano su quella scena angusta, osservavamo e analizzavamo ogni singolo spostamento d’aria. Lo spazio della locanda, però, era tutt’altro che ristretto. C’erano, lungo tutto il perimetro della sala, dei tavolini in legno tondi e stretti che un po’ ricordavano gli scorci delle cartoline di Parigi: Sai, magari un giorno ci andremo insieme! Me lo aveva detto la prima volta che gliel’avevo fatto notare. In quel momento mi sembrò strano che si esprimesse in maniera così diretta, lui che le parole le soppesava una per una e alla fine di tutte quelle che aveva pensato ne pronunciava meno della metà. E poi, chiunque entrasse in quella remota porzione di mondo, poteva notare che l’atmosfera non aveva nulla a che vedere con l’eleganza parigina; in ogni angolo c’erano uomini che bevevano e fumavano e ridevano e ogni tanto urlavano e sempre più spesso sospiravano. Mi accorsi che ultimamente sospiravo anche io, ma a differenza degli altri uomini o dei ragazzi della mia età il mio sospiro era leggero, nonostante ogni cosa intorno a me apparisse grave e senza speranza.
Nel tavolo di fianco al nostro, un uomo col cappello posò seccamente il giornale a pochi centimetri da me. La linea stretta e sottile della sua bocca sembrava quasi interdetta, come se avesse bisogno di tempo per decidere se quello che aveva appena letto valeva lo sforzo di sputare fuori la sua sentenza di verità. Le parole in questione erano chiaramente distinguibili anche ai miei occhi: Per i pietisti: l’ebreo è un comunista nato. Un’edificante disamina sulla sua razza fatta da un filosofo giudeo.
Mi resi conto di star trattenendo il fiato solo quando da lontano mi arrivò la voce strozzata di Sandro: – Primo… Primo? Oh… Primo!
Mi voltai. La sua figura era illuminata da una luce prepotente che entrava a sprazzi quando si apriva la porta d’ingresso. Teneva la mano destra chiusa a pugno davanti alla bocca, sussurrando piano per non farsi sentire: Primo Levi a rapporto, Primo Levi a rapporto. Sembrava sul punto di dirmi qualcosa, ma prima che potesse aprire bocca lo vidi seguire la direzione del mio sguardo fino al giornale, allora capì. Sandro tornò su di me; nel suo tono improvvisamente duro non c’era più alcuna traccia di scherno: – È vecchio di mesi, – disse riferendosi al giornale; l’articolo in questione riportava la data di martedì 3 gennaio 1939: – e comunque a nessuno importa un accidenti, qui. – concluse, ammorbidendosi proprio sull’ultima sillaba.
Il suo cambiamento repentino mi fece tornare in mente quella parola che aveva pronunciato tempo prima, insieme. La sicurezza con cui l’aveva masticata, a distanza di tempo quasi mi bastonò. Non avevo mai fatto caso a come, di fronte alla percezione della sofferenza, certi sentimenti tanto puri venissero fuori con più violenza della violenza stessa. Solo in quel momento capii che insieme, nel linguaggio di Sandro, con la sua bocca un po’ storta e le labbra strette ai denti, significava un domani che sarebbe certamente arrivato. Insieme, detto da lui, tra poche sillabe di malcelato distacco e gli occhi inondati di furore, era come un balsamo sul nervosismo dei giorni che stavamo vivendo. Perché insieme significava futuro e futuro significava che ogni cosa sarebbe comunque andata avanti.
Certo, io lo sapevo che nonostante la luce, fuori dalla finestra l’aria continuava a puzzare. Era un odore acre che fiutavamo entrambi, continuamente. Chiunque entrasse non faceva che dire che le cose si sarebbero certamente messe male, che ormai il processo era irreversibile. Bisognava stare pronti, questo dicevano. Ma noi, io e lui, che da quel silenzioso primo piano osservavamo tutto con disonorata leggerezza, pronti non lo eravamo affatto. Ce ne stavamo lì dentro aspettando che là fuori qualcosa succedesse, prima di trovare il coraggio di guardare in quella direzione.
Gli presi dalle mani il libro di Jack London a cui continuava a martoriare gli angoli e lo sfogliai in cerca di qualcosa: un indizio, una risposta, una rassicurazione.
– Sai, dovresti cominciare a leggere anche altro – gli dissi di punto in bianco, ma lui guardava qualcosa di imprecisato oltre le mie spalle.
Mi accorsi solo allora che non seguiva qualcosa con lo sguardo, ma qualcuno. Fece un cenno con la mano in quella direzione e poco dopo sul nostro tavolo comparve una pinta di birra. Era scura e spumosa, così piena che quando la mano che stringeva il bicchiere la poggiò accanto a me, quella straboccò macchiandomi il polsino della camicia. Sentii una voce sconosciuta scusarsi e mi girai, impreparato a scontrarmi col viso più grazioso che avessi mai visto.
Dalla tasca del grembiule marrone che teneva legato stretto in vita tirò fuori una pezza umida e, mentre la passava sul tavolo, fece correre lo sguardo sul libro che tenevo ancora tra le mani: – Il richiamo della foresta? – squittì.
Aveva una voce tanto limpida che per qualche motivo l’idea di risponderle direttamente mi imbarazzava; continuavo a fissare il legno rovinato del tavolino, incapace di alzare lo sguardo sulla sua figura così slanciata, così dritta, così esile e armonica… così stonata rispetto alla grettezza di quel locale montano. Di risposta indicai Sandro che mi guardava, improvvisamente stranito che il suo mutismo, adesso, avesse colto anche me. Mi tolse prontamente dal disagio in cui ero caduto: – Conosci?
– Ne ho sentito parlare, – rispose lei – è un genere che non mi dispiace.
– Ah, quindi ti piacciono le avventure – insinuò allora lui. Lei colse qualcosa nella risposta del mio amico che la divertì: – Diciamo che le preferisco ai sentimentalismi letterari – e calcò l’ultima parola. Sandro mi indicò con il pollice, pur continuando a mantenere lo sguardo sulla sua figura esile: – In realtà l’esperto di libri è lui. Io sono più per le cose concrete.
Alzai la testa d’istinto. Il mio primo piano adesso non era più la sala gremita o l’articolo di giornale di cui mi ero presto dimenticato. Il mio primo piano erano gli occhi scurissimi di lei, che non riuscivo a non fissare, mentre a fatica provavo a balbettare qualcosa.
Il suo sorriso era incoraggiante e anche un po’ impacciato, ma non per questo meno luminoso. Sandro intuì che forse non avrebbe dovuto lasciarla andar via e, di certo non senza sforzo per un tipo come lui, si impegnò affinché la conversazione continuasse:
– È da molto che lavori qui?
Lei si strinse il vassoio al petto: – Sono qui da poco, in realtà – lo disse quasi rassegnata, come se stesse pensando a qualcosa che noi non potevamo sapere. Mise il vassoio sotto il braccio e con la mano libera si grattò il polso: – A dire il vero è il mio primo giorno. – concluse poi, spostando nervosamente il peso da un piede all’altro.
Notai che il polso su cui compariva ancora il passaggio delle sue unghie, era segnato altresì da una cicatrice a forma di stella che mi parve curiosa. Senza nemmeno accorgermene le chiesi: – Quella come te la sei fatta?
– Io, non… – provò a farfugliare lei, improvvisamente ermetica e scuotendo la testa in maniera quasi impercettibile. Era chiaro che non voleva parlarne. Annuii e basta, incapace di chiederle altro. Sandro sembrò cogliere al volo il cambio di temperatura e un’altra volta intervenne: – Comunque sono sicuro che il mio amico non avrebbe problemi, sai, a prestarti il libro… nel caso lo volessi leggere, ovvio.
Una ventata di calore mi incollò la camicia al petto e il libro mi scivolò di mano cadendo sul pavimento. Lei si piegò a raccoglierlo ancor prima che riuscissi a farlo io. Me lo restituì con un gesto affrettato guardandomi intensamente. Alla fine sorrise. Notai che stava per dire qualcosa, ma proprio in quel momento l’uomo col cappello la chiamò afferrandole un braccio. Il giornale abbandonato lì vicino, così lontano ormai anche dalla sua attenzione.
– Sì, certo, arrivo subito! – urlò lei di rimando, per sovrastare il chiacchiericcio e le risa della sala. Sandro non disse nulla, finì la sua birra in un solo sorso e si alzò. Prese la giacca che aveva abbandonato sulla panca e piegandosi poi verso il mio orecchio scimmiottò: – Dovresti leggere anche altro!
E allora capii che non era più la cameriera, o i suoi occhi profondi e bellissimi, o il legno rovinato del tavolino. Non era nemmeno l’articolo diffamatorio sugli ebrei, né il libro di Sandro rimasto tra le mie mani o la macchia di birra sul polsino della camicia: il mio primo piano, da quel momento e in avanti, sarebbe stata la figura dinoccolata del mio amico, che senza più alcuna remora apriva la porta del locale e usciva fuori.

Racconto di Martina Marrone
Editing di Martina Costanzo

Racconto legato alla ricorrenza del centenario della marcia su Roma (28 ottobre 1922)


L’autrice

Martina Marrone ha ventisei anni ed è nata sulle Alpi piemontesi. Pur di riuscire a fare quello che le piace, come scrivere a tutti i costi, dopo aver racimolato qualche risparmio e abbandonato il fantomatico posto fisso, nel 2020 si iscrive alla Scuola Holden di Torino, che termina nel 2022.
Attualmente fa la ghostwriter, collabora come editor e porta avanti diversi progetti. Ama prepararsi dei toast quando non sa cosa cucinare e inizia sempre a leggere più libri di quanti poi ne riesca a finire.

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