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IL BUIO DELLA SOLITUDINE

Opera di Silvia Farina

Un brano per accompagnare la lettura:

Brano scelto da Mattia Sonzogni, editor musicale

Sollevai la sedia di metallo che teneva aperta la porta, e quella si chiuse. Rimasi solo con lui, come lui era solo da un po’, visite a parte, in quella grigia e spoglia stanza d’ospedale.
Era seduto al tavolo e stava finendo di cenare. Mi sedetti accanto a lui, in silenzio, tenendomi ben lontano dalla sacca piena di liquido giallo e rossastro che pendeva dallo schienale della sua sedia a rotelle. Le spalle strette e incurvate in avanti quasi si richiudevano sulla testa rugosa, piena di forfora e piccole croste.
Con i gomiti sul tavolo e i palmi appoggiati alle guance, tentava, ruminando, di masticare qualcosa. Poi deglutì, e dalla scollatura profonda del camicione da ospedale che indossava intravidi la linea viola che gli tagliava a metà il petto. Prese con mano tremante la bottiglietta di plastica che aveva davanti e la portò alla bocca, versandosi un sorso d’acqua. Deglutì ancora, e i tubi che gli entravano e uscivano dal collo seguirono il movimento della gola.
“Allora nonno, com’è il cibo qua?” dissi, osservando il tavolo. Nessun piatto era finito e, a dire il vero, alcuni non erano nemmeno stati toccati.
“Mah” disse, appoggiando la bottiglietta e richiudendola con il tappo “In questi posti il cibo non è mica buono, sai? Non sa di niente, e per tirare giù questa sorta di cotoletta ci vuole un bel po’ d’acqua.”
“Non potrà essere tanto peggio di quello che ti cucini a casa” ridacchiai.
“Come?”
“No no, niente… Dicevo che ormai sei troppo abituato a fare tutto da solo.”
“Saranno vent’anni che mi arrangio, e ormai mi sono anche abituato alle mie schifezze, ma non è quello. È che qui proprio non si sta bene.”
Non risposi.
“Qui dentro l’unica cosa che mi piace davvero è il kiwi” e afferrò uno dei due frutti pelosi che aveva davanti a sé. Poi, non senza fatica, riuscì a tagliarlo a metà con un coltello di plastica. “Ma scusa, come fai a…” stavo per chiedere, quando ebbi la risposta.
Si infilò in bocca una metà intera di frutto, spingendola dentro a forza tra i denti. Non appena la morse, del succo verde gli colò dalle labbra, cadendogli sul camice già pieno di macchie secche. Quando sputò a fatica pezzi di pelle masticata, mi affrettai a prendere l’altro kiwi e a provare a sbucciarlo.
“Non ti preoccupare, faccio io” dissi risoluto, ma la lama del coltello di plastica strisciò sulla superficie dura senza scalfirla. Provai ancora, con lo stesso risultato, finché cominciai a sentire caldo.
“Sono duri a morire, eh?” mormorò.
Il frutto, nonostante i graffi, continuava a resistere. Tagliare in diagonale nel tentativo di sbucciarlo era impossibile, e dopo qualche tentativo riposi il frutto dove lo avevo preso.
Lui finì il primo, poi attaccò col secondo. Quando ebbe finito, si pulì con un tovagliolo di carta.
“Frutta a parte, quello che mi danno qui sembra cibo per cani.”
“Beh, nel mondo d’oggi ci sono cani che mangiano meglio di molte persone. Gianni, per dire, gli dà riso e pollo.”
“Riso e pollo… a un cane?” disse, sbattendo le palpebre e corrugando la fronte.
“Sì, ed è davvero assurdo, noi glielo abbiamo detto che è esagerato, ma lui non ne ha voluto sapere” dissi scuotendo la testa. “Tu sì che hai abituato bene Sissi: croccantini o niente.”
“Sissi?” chiese guardando nel vuoto davanti a sé. “Ora è dalla zia vero? Sissi… A volte dimentico anche di averlo un cane.”
“In che senso?”
“Non mi ricordo nemmeno da quanto non la vedo, sembrano mesi ormai.”
“Tra pochissimo torni a casa, e lei sarà troppo contenta di rivederti.”
“E pensare che non sarei dovuto restare in ospedale nemmeno una notte…”
Scossi la testa. “Già, non doveva andare così l’operazione.”
Puntò i suoi grossi occhi azzurri su di me “Te l’avevo detto che con il cuore non si scherza. Io ci sono dietro da una vita, lo so bene. Solo che questa volta… che botta è stata” e abbassò la voce, toccandosi il petto. “Mi sento come bloccato” disse, facendo un respiro profondo.
Io rimasi in silenzio, a guardare i tubi che gli entravano nel collo alzarsi e abbassarsi, le ossa che sporgevano dalla pelle livida.
“Sento che non c’è molto da fare…”
“Dai, non ti preoccupare, troverai un modo per passare il tempo. Tu leggi sempre…”
“Eh, io ci provo a leggere, e ci riesco, ma leggo, leggo, leggo e non mi rimane niente. Torno indietro e non capisco. Ricomincio e ricomincio ancora. Cambio pagina ed è la stessa cosa.” Guardai il comodino di metallo accanto al letto con lo schienale rialzato, e vidi la sua Bibbia, l’unico libro che portava sempre con sé.
“Allora penso, mi sdraio e penso, ma mi viene solo sonno. Ma non è questo il punto. È che sento che non c’è molto da fare… per me.”
Intanto, fuori, il sole stava calando. Dentro, la porta era chiusa, la luce spenta, e nella stanza avanzava la penombra.
Mi avvicinai a lui, spostandomi sul bordo della sedia.
“Non mi ricordo bene niente, i pensieri si mescolano tutti insieme, e mi confondo. Non associo più i ricordi alle persone ed è tutto così vago. Io non vado più bene. Sento che si è proprio rotto qualcosa… qui” disse toccandosi la testa con l’indice. “Questa non funziona più bene. C’è un motivo se sono ancora qua.”
Gli presi una mano tra le mie, facendo attenzione a non stringerla troppo. Fui scosso da un brivido. Schiusi le labbra, ma non uscì alcuna parola.
Dopo qualche attimo di silenzio, riprese: “Ho perso il gusto per le cose.”
“Per cosa?” dissi in un fiato.
“Tutto. È un po’ come se le cose non fossero più… così materiali, così… reali. È come se le cose non fossero più così cose.”
“Sarà stato l’imprevisto dell’operazione, non appena torni a casa…”
“Non lo so proprio sai, non ne sono così sicuro… Questa volta nemmeno Lui riesce a dirmi qualcosa” disse guardando la Bibbia sul comodino. “Le altre volte, in tutte le difficoltà che ho dovuto affrontare, Lui c’era, c’era sempre. Mi ha aiutato quando tua nonna si è ammalata. Mi ha salvato quando dopo due anni di agonia se n’è andata.”
Si liberò delicatamente dalla mia presa e con le dita della destra circondò la sinistra e si toccò la fede. La stessa fede che lo legava all’unica donna della sua vita e che, nonostante tutto, non si era mai tolto. La fede che, alla morte della moglie, quarant’anni prima, aveva in un certo senso sostituito con quella in Dio.
“Non so quale sia il tuo legame con Lui, ma dopo la nonna, senza di Lui non ce l’avrei fatta. Mi ha tirato fuori dalla fossa nella quale stavo sprofondando. Lui è sempre stato con me, mi ha sempre parlato, in un qualche modo… l’ho sempre sentito vicino.”
L’ombra aveva lentamente divorato la parte della stanza più lontana dalla finestra, procedendo dall’alto verso il basso, dall’esterno all’interno. Prima il soffitto e le pareti, poi la porta e le piastrelle più lontane, e continuava ad avanzare, inghiottendo, centimetro dopo centimetro, i pochi sventurati oggetti che trovava sul suo cammino. Il letto, il comodino e la Bibbia di mio nonno erano ormai sagome grigiastre su uno sfondo scuro, al quale presto si sarebbe unite se nessuno avesse acceso la luce.
Cercai i suoi occhi azzurri, vivi anche nei momenti più difficili, senza trovarli.
“Ma ora, ora non lo sento più. Sembra quasi che si sia preso una pausa. Forse non è più il mio posto, io non devo più… Forse vuole farmi capire qualcosa, sono io il problema, o forse mi ha abbandonato… Forse sono solo davvero.”
Rimasi in silenzio, non sapendo come rispondere, pensando a cosa dire, mentre il buio avanzava.

Racconto di Marco Carta Satta
Editing di Martina Costanzo e Lorenzo
Cappelli


L’autore

Figlio di una mamma artista e di un papà esploratore nato nell’epoca sbagliata, Marco Carta Satta cresce tra i racconti romanzati ed esagerati di un nonno e quelli più sentimentali dell’altro. Per dar voce alla sua emotività e alle esperienze tragicomiche vissute nelle campagne emiliane, ha cominciato a raccontarsi e a scrivere storie per poi trasferirsi a Torino a studiare alla scuola Holden e coltivare così la sua passione.

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