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LA MORTE DI MIGUEL

Litografia per racconto "La morte di Miguel
Opera di Irene Puglisi

Miguel Suarez è un nome scritto su un cartellino di carta bianca, fuori dalla cella, proprio come tutti noi.
Miguel faceva un riso fantastico, da leccarsi i baffi.
«Mia madre mi ha insegnato a farlo» mi spiegò un giorno, mentre la pentola emetteva sbuffi di fumo che riempivano la nostra squallida cella. Sembravano grossi nuvoloni appena usciti dalla pipa di un marinaio. Avevano l’odore dolciastro dell’amido di riso. Mi scordavo delle quattro mura ammuffite che mi circondavano immergendomi in quel profumo. Mi faceva sentire libero come un falco che si immerge in bianchi cirrocumuli a centinaia di metri d’altezza.

Non riesco a capire se sono sveglio o sto dormendo. I sonniferi che ho ingurgitato rallentano la mia risalita verso la realtà. Oltre le sbarre il buio, deve essere notte fonda. Guardo insonnolito la finestra, c’è qualcosa che non va. Attaccato alle sbarre un lenzuolo, all’estremità opposta Miguel, ormai immobile e gonfio. Penzola come un piombo per muratori a pochi centimetri da terra. Ha la lingua di fuori, come volesse mandare affanculo per un’ultima volta tutto il genere umano, e puzza. Puzza come se si fosse cacato addosso, e probabilmente è proprio così. Il collo è violaceo come una melanzana, di quelle che maturano col caldo torrido, quando il sole squaglia il cemento e le lamiere delle macchine diventano roventi. Gli occhi sono vuoti, vitrei, sembra quasi che io possa guardarci attraverso. Quei grossi bulbi sporgono all’infuori come un uomo che si affaccia dal balcone.
«Miguel, Miguel!» Lo chiamo, ma non risponde. Scendo dalla branda con un salto, ma la poca lucidità mi fa atterrare male, mi storco la caviglia e sbatto la testa contro il muro.
Queste maledette celle sono così maledettamente strette. Maledetto sia chi le ha progettate e maledetto me! Impreco finché il dolore non comincia a scemare, poi afferro con forza quell’enorme massa di grasso.
«Cazzo Miguel non fare scherzi! Svegliati brutto panzone, brutto ammasso di adipe appiccicoso.»
Prendo il coltello che Miguel usava per cucinare. Non è proprio un coltello, è una sottile anima di legno appuntita, ricavata dalla parte superiore dello sgabello. Questi carcerati se ne inventano una più del diavolo. Miguel lo usava per affettarci le cipolle, funzionava talmente bene che non sentiva la mancanza del buon vecchio coltello seghettato. Taglio la corda fatta con il lenzuolo; Miguel mi cade addosso. Il pavimento trema come se due placche tettoniche si fossero mosse proprio sotto di noi. Rimango schiacciato dal mio pachidermico compagno di cella morto. Mi immagino come doveva sentirsi la fidanzata, quando lui, preso dalla foga sessuale, la cavalcava posizionandosi sopra di lei.
«Guardia!» urlo con tutta l’aria che ho nei polmoni, che si svuotano come un tubetto di dentifricio all’ultima strizzata. Provo a respirare ma il peso del mio compagno di cella me lo impedisce. Sto per lasciarmi andare, qualche altro secondo e probabilmente seguirò Miguel nell’aldilà, nel Valhalla, nel paradiso o in qualunque altro posto l’anima scelga di andare dopo la morte. Forse non c’è niente dopo, solo un buio eterno o un bianco eterno o un bel niente cosmico. Sento il tacchettio dell’appuntato che percorre il corridoio. Tic toc, sembrano le lancette di un orologio. Si muovono senza fretta, come se fosse il mondo a girare intorno a loro invece che il contrario. Sto per lasciarmi andare, cullato da quel rumore ritmico. Mi accarezza le orecchie come una brezza estiva.
«Che cazzo state a fa’ voi due?»
Queste parole mi riportano alla realtà. Sbircio oltre il pachiderma che mi è crollato addosso e vedo l’appuntato. Soffio fuori la mia richiesta di aiuto, ma dalla bocca non esce alcun sibilo. Sento il rumore di chiavi: dlen dlen. Quel suono ha qualcosa di magico, di spirituale, di escatologico, di ritualistico, di religioso. Scandisce la vita di un carcerato, lo accompagna per tutta la sua permanenza in carcere. Mattina e sera, come un fedele compagno, fino all’ultimo giorno della sua condanna.
Quando la guardia realizza che Miguel è morto, i suoi occhi si allargano come le natiche di una donna poco prima di toccare la seggiola.
«Infermiere! Serve subito un infermiere al secondo piano!» strilla nella radiolina, poi si lancia sul corpo di Miguel cercando di spostarlo.
Con i miei ultimi attimi di lucidità percepisco i muscoli della guardia vibrare come rotaie del treno. Le sue gambe tremano per lo sforzo e poi, finalmente, questa lunga gestazione finisce. Assaporo nuovamente l’aria, mi riempio i polmoni di questo gas delizioso, ne percepisco tutte le sue sfumature.
«Allora che è successo?» mi urla addosso l’appuntato.
«Non so cosa è successo. Dormivo e quando mi sono svegliato l’ho trovato attaccato come un salame alle grate della finestra.»
Il secondino rimane in silenzio, mi fissa con un’espressione ebete. Dovrei mettermi a piangere per la morte del mio cellante? Non ce la faccio, le lacrime non escono. E poi chi era Miguel? Uno dei tanti. Questa non è una cella, ma un porto di mare. C’è un via vai continuo, altro che Via del Corso. Ogni volta mi tocca ricominciare tutto da capo: da dove vieni? Cosa hai fatto? Hai i soldi nel libretto? Senza soldi tocca mangiarsi il vitto, c’è poco da fare. Certi manicaretti: delle polpette che sanno di cibo per cani e una pasta buona da usare come stucco per i muri.
Afferro la caffettiera con la mano destra e aggiusto la vecchia e malridotta guarnizione.
«Cosa stai facendo!?» sbraita l’appuntato quando mi vede con la macchinetta in mano. Mi fermo, come se avessi incontrato lo sguardo di Medusa. Con nonchalance ripongo la macchinetta del caffè sul tavolo e mi sposto in un angolo della cella. Aspetto.
Aspettare non è una cosa facile. Fuori, dove la gente respira aria pura, cammina, passeggia libera dalle restrizioni, libera di chattare su Facebook alle nove del mattino o alle undici di sera; lì fuori, insomma, le persone non sono più abituate a non fare niente, al vuoto cosmico, al nulla più assoluto, all’eco sorda della propria mente e ad essere costretti a conviverci. In carcere, invece, aspettare diventa un’arte, uno sport, una disciplina agonistica. Si potrebbero indire dei campionati. Quando sei in isolamento, recluso in una cella fredda senza tv, sopra un letto umido, indossando solo le quattro mura fradice che ti circondano, abbellite da orride scritte sgrammaticate, il tempo diventa il tuo peggior nemico e il saper aspettare la tua religione, il tuo mantra, il tuo credo spirituale.
Sento altri passi, questa volta irregolari e zoppicanti: è l’infermiere che si presenta con una chioma scarruffata, un grembiule sporco e delle scure borse sotto gli occhi.
«È morto» dice dopo avergli tastato la vena giugulare. Fin qui c’ero arrivato anch’io. Non serve certo una laurea.
«Dobbiamo spostarlo da qui» dice l’appuntato.
A quel punto i due prendono il cadavere e richiudono la cella.
Io mi siedo sul letto di Miguel. Se lo avessi fatto qualche ora prima mi sarei preso una sonora strigliata e probabilmente anche un ceffone. Miguel teneva quel letto come una reliquia, quello era il suo piccolo tempio. Ogni mattina lo rifaceva con un’attenzione maniacale, al millimetro, come se la sua vita dipendesse dalla federa sgualcita o dal lenzuolo leggermente tirato verso sinistra. Amava il suo letto come si ama un cane o un gatto; lo coccolava, lo accarezzava. Se avesse potuto, gli avrebbe dato anche da mangiare. Nessuno ci si poteva sedere. Miguel e il suo letto erano una cosa sola, erano amici per la pelle. Ora che lui non c’è più, anche il suo letto sembra senza vita. Con una mano sfioro il copriletto colorato, è morbido e sa di pulito, glielo aveva regalato la sua Maria. Quante lacrime ci avrà versato quella donna prima di infilarlo nel pacco per il suo fidanzato in carcere. Lo accarezzo un’ultima volta, cercando di carpirne i segreti, ma lui rimane muto, non parla, se li tiene per sé.
Probabilmente domani lo venderò per un paio di pacchetti di tabacco.

Racconto di Francesco Ceccacci
Editing di Giorgia Vullo


L’autore

Francesco Ceccacci

Francesco Ceccacci classe 1984. Dopo la laurea in lettere ha conseguito un master in editoria. Ha cominciato a scrivere storie da adolescente. Le sue passioni per la scrittura creativa e per le scienze cognitive applicate alla narrativa lo hanno portato a leggere numerosi articoli e saggi a riguardo. Un suo racconto si è classificato secondo al premio letterario Alberoandronico, un altro è arrivato quinto al premio Jodorowsky.

2 commenti su “LA MORTE DI MIGUEL”

  1. Assolutamente coinvolgente. In un qualche modo ti sembra di assistere da li, seduto su una sedia all’angolo di questa stanza umida.
    Un racconto forte e crudo con il giusto e ben dosato cinismo.

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