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IO

Opera di Irene Puglisi
Opera di Irene Puglisi

Poi fu un dolore che inchiodava il cervello, talmente deciso che sembrava lo stesse riposizionando nel suo ricetto cranico.
In principio fu la luce. Una pugnalata agli occhi che in  pochi secondi assunse i contorni di una luce al neon.
Infine arrivò una pulsazione che strisciava dalle tempie fino alla schiena. Batteva con tanta forza che, ad ogni battito, strappava lembi di terminazioni nervose grandi come viscere; una continua e persistente sequenza di frustate in tutto il corpo.
Voci che non riconoscevo:
“ Si muove”
“Dice qualcosa?”
No, non dicevo nulla. Quello che sentivano era più probabilmente l’eco del mio corpo, un rantolo animalesco e forse per questo più umano.
Mi parve di sentire dei passi concitati, circoscritti da un’ eco che dilatava il silenzio, una specie di zoccoletto su un asfalto liscio e lucente.
Fu come se qualcosa di azzurro o verde parlasse:
“E’ un miracolo! Chiamo il dottore.”
Sono qui, pensai.
Qualcuno, o qualcosa, voleva tenermi fermo.
A quel punto fui certo di sentire qualcosa, come se delle braccia lunghe e sottili scorressero lungo il corpo in un abbraccio tentacolare che mi si contorceva anche dentro. La bocca produsse uno schiocco secco sulla lingua schiacciata. Uno dei tentacoli mi teneva aggrappato al mondo dall’interno. Si perse la vista in cerca delle altre estremità. Una ninna nanna sempre uguale sibilava da qualche parte lì vicino. Sempre uguale. Un lungo serpente blu si muoveva su un monitor e si perdeva nello stesso momento in cui si allungava.  La gola mandava fitte lancinanti che si aggiungevano a quelle della testa.
Un rumore tornò a echeggiare sulle pareti, sui corridoi, sulle porte. Questi non erano passi, no. Si muoveva su delle ruote. Ruote piccole, metalliche, un rumore freddo.
Ecco, se sentivo quell’abbraccio, come l’invasione, allora quello ero certo io. IO. Qualcuno mi toccò sulle braccia; stavolta fu un tocco caldo e più delicato. Si muoveva piano sotto i tentacoli che finalmente presero le sembianze di tanti tubicini. Blu, bianchi, liquidi.
IO. Chi?
È strana la percezione di cosa possa essere un essere umano  – IO – quando arriva da qualcosa che di umano ha ben poco. Fu come una  nuova conoscenza, come quando cominci a imparare un’altra lingua e scopri di capire concetti noti attorno a parole nuove. Alla stregua di una consapevolezza che arriva attraverso una nuova sensibilità, capii che, se mi aveva sfiorato il pensiero di cosa fosse il genere umano, dovevo necessariamente essere umano anch’io.
Lentamente i miei occhi definirono un contorno, un sorriso bagnato dalle lacrime. Doveva essere quello che noi umani chiamiamo faccia. Poi un suono, un sussurrare dolce che ebbe l’effetto di soffocare le scosse dentro la testa:
“Ciao”
Non risposi, non potevo, non ero in grado. E se lo fossi stato, cosa avrei dovuto dire?
Guardai quel volto. Chi era? Restrinsi la rosa delle possibilità: un umano, sicuro. Me lo suggeriva l’istinto. Riconobbi in quei contorni, certe cose che avrei dovuto avere anch’io: faccia… naso…  bocca… occhi. La consapevolezza di dover rispondere, quantomeno per educazione, mi riportò su un piano di coscienza che ribadiva il mio essere al mondo come umano. IO, un uomo.
Era sufficiente questo. Il mio nome era IO. Poteva andar bene.
Ogni tanto una leggera sfocatura permeava le cose, come se non desiderassero mostrare la propria, identità. Come me che, piano piano, mi rendevo conto di avere delle braccia, anche se non le sentivo, sapevo che erano lì, una presenza inquietante come quella di un fantasma. Sentivo che c’erano solo perché una serie di tubicini si diramavano verso l’alto. Ero attorniato da un reticolato di trasparenze, valvoline azzurre, shunt ovunque. Ero di nuovo dentro un utero. Mi avrebbe ridato la vita? Alla vita? Probabilmente alla vita, quello sì. O forse ero prigioniero di una ragnatela, da qualche parte prima o poi arriverà il mostro peloso con tanti occhi. Ecco, sì, il ragno. Perché mi ricordo come è fatto un ragno e sconosco invece il volto di questa donna? Un umano donna. Doveva essere stata bella una volta. La guardo per capire chi sono.
No, non è un ragno. E’ il poligono di Willis.
Per un istante mi stupii delle mie stesse considerazioni. Non era un ragno ma la fotografia di un cervello. Il mio tornò a pulsare ancora, come se ogni pensiero fosse lo scotto tributato al destino .O a Dio.
Qualcuno, un altro umano fatto di nebbia, mi guardava. Mi sorrise dietro la maschera, almeno credo. Quasi urlando disse:
“Il dottore ha ripreso conoscenza!”
Altri passi si fecero più certi e precisi, come a delineare i confini di una nuova vita. Fu in quel preciso istante che mi sentii di una specie diversa. All’improvviso capii, il dottore ero IO. Mi fu chiaro perché l’ambiente mi risultava familiare.
Chissà perché capire di essere stato un medico mi inquietava più di quanto lo facesse il fatto di non riuscire a dare un nome alle cose o alle persone. Forse è più facile sapere quello che siamo diventati, piuttosto che riconoscere quello che siamo sempre stati. Ecco, le lacrime. Le sentii scivolare sul mio volto. Erano le mie. Portavano nuove consapevolezze. Io avevo lavorato lì, prima.
Adesso il tempo non può essere più scandito. Rimane uguale sempre. Respirare ora o respirare domani non ha importanza. L’importante è respirare. L’importante è tenere accesa la cosa che mi permette di scandire questo unico tempo.
I rumori delle macchine, le voci sussurrate, trascinavano silenzi ben più pesanti. Echi di vita altrove. Altrove era un mondo. Ci sarei mai tornato?
Le cose prendevano forma. Ecco una stanza, piccola come la cella di un monaco, una finestra senza maniglia, un fruscio asettico, rotto solo da un silenzio dovuto, come se fosse al cospetto di un altare sacro. Una vita che in qualche modo ricomincia merita una riverente devozione. Lo pensai da medico e non da umano.
Più avanti avrei capito che il mio tornare al mondo sarebbe stato solo quello di starci come una pianta, di percepire l’aria solo come un ossigeno pompato artificialmente, come una siringata che aspira dall’atmosfera e inocula, quasi prepotentemente dentro le viscere. Sarebbe stato un limbo perenne. Vivere da morto. Non mi era stata neanche concessa la capacità di urlare al mondo il diritto di tornare indietro. In quella oscurità che mi avrebbe salvato. Forse.

Racconto di Carmelo Modica
Editing Giorgia Vullo


L’autore
Carmelo Modica
Carmelo Modica

Carmelo Modica nasce a Palermo l’8 gennaio 1972.
Si laurea in Interpretariato e traduzione con 110 e lode.
Conosce una serie di lingue e ogni tanto ne impara di nuove.
Non ricorda un momento della sua vita in cui non abbia mai scritto. La prima poesia risale a quando aveva otto anni, scritta su un’agenda farmaceutica appartenuta al nonno materno.
Ha pubblicato un libro di poesie in italiano “Come quando non c’è”, uno in dialetto siciliano “chiantu di
chiarìa”, una raccolta di racconti “il pelo bianco e altre storie”.
Attualmente alle prese con una nuova silloge, un particolarissimo lavoro di traduzione, una nuova raccolta di racconti. Un romanzo nel cassetto e tanti progetti in testa.

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