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CON L’ACQUA

Opera di Silvia Farina.

Un brano per accompagnare la lettura:

Brano scelto da Mattia Sonzogni, editor musicale.

Non se l’aspettava, ecco, proprio non se l’aspettava, e forse proprio per questo era rimasta annichilita. La ginecologa l’aveva avvisata che due terzi delle gravidanze nel primo trimestre si concludevano con un aborto spontaneo, ma Anna semplicemente non ci aveva dato peso: aveva ventotto anni, era felicemente sposata, aveva sempre desiderato dei bambini e finalmente era incinta. Non vedeva ostacoli nel percorso, in quegli otto mesi che la separavano dal parto, ma solo piccole contrarietà, un po’ di nausea, il prendere troppo peso, le smagliature…
Forte della sua natura pragmatica, che la portava a organizzare tutto e per tempo, era andata in farmacia. Si era comprata una costosissima crema antismagliature e i collant graduati per evitare le vene varicose, poi dei nuovi reggiseni perché, con sua profonda soddisfazione, il seno era già aumentato. Al momento degli acquisti non aveva mai mancato di specificare che era incinta, e di quante settimane. Ogni volta aveva visto la sua felicità riflettersi negli occhi dei negozianti e delle commesse. Evidentemente l’arrivo di un bambino metteva tutti di buon umore.
Per non parlare dei futuri nonni, che proprio non si tenevano. Anna aveva specificato che l’acquisto di qualsiasi articolo per il bambino era prematuro, c’erano mesi per scegliere il necessario, ma si era comunque accorta di movimenti furtivi, di sacchetti con il logo di negozi per l’infanzia che comparivano su qualche mensola per scomparire subito dopo. Sono cominciate le grandi manovre, pensava con indulgenza.
Alle amiche più care l’aveva già detto, era una delle prime del gruppo di amiche storiche a rimanere incinta e questo fatto la riempiva di un’infantile soddisfazione.
In questo vortice di attività, di annunci festosi e inediti acquisti, le parole della ginecologa “dobbiamo fare un raschiamento, non c’è battito” erano state una mazzata che l’aveva lasciata tramortita. Mentre la dottoressa le parlava, spiegandole come si sarebbe svolto il tutto, Anna ebbe una stranissima impressione di sdoppiamento. Forse per neutralizzare il dolore, le pareva di vedersi dal di fuori, come se stesse assistendo alla scena da spettatrice. Vedeva una ragazza che si rivestiva, ammutolita, e la dottoressa che le parlava, con sollecitudine. Intanto, da quel punto di osservazione esterno pensava “Poveretta, che botta, ci teneva tanto, sarà distrutta…”.
I mesi successivi rimasero nella sua mente come una serie di scatti fotografici, senza un prima, né un dopo. La comunicazione ai genitori e ai suoceri, lei che parla con tono piatto e monotono e loro che la guardano, impietriti, click.
La visita preoperatoria, la ragazza seduta ad aspettare insieme a lei che le dice “Sai io sto facendo una IVG, che cosa penserai di me?” e Anna, sguardo vacuo, che risponde nella sua mente “Niente, non penso niente, il mio dolore mi basta e avanza”, click.
La borsa per la notte da passare in ospedale, la mente così vuota da non sapere cosa metterci dentro, click.
Stesa sul lettino della sala operatoria, la ginecologa che, prima di metterle la mascherina, cerca di farle coraggio. Le consiglia di pensare a una cosa bella, click.
L’anestesia le fa un effetto “trip”, Anna entra ed esce dal suo “sistema operativo” come se fosse una delle finestre di Windows, click.
La barella la riporta su in camera, la voce di sua madre che dice “Sì, è mia figlia”, click.
Stesa nel suo letto cerca di riaddormentarsi per non pensare, si avvicina suo padre e le bisbiglia all’orecchio “Stella, lo sai che ho imbottigliato oggi?”, e Anna che mormora “Cosa vuoi che me ne freghi, sono astemia”. E lui che se ne va rassicurato, dicendo “Stai già bene”, click.
Il ritorno a casa, sta iniziando la primavera, tutto intorno è un tripudio di primule fiorite e gemme sugli alberi, e lei ha abortito, click.

La vita pian piano aveva ripreso il suo ritmo, Anna era rientrata al lavoro e, se aveva mai avuto il dubbio su cosa significasse “sentirsi svuotata”, in quelle prime settimane lo aveva capito perfettamente. Faceva tutto controvoglia, nulla aveva un senso o uno scopo. Le costava fatica anche vestirsi al mattino, si sentiva a suo agio solo con i pigiamoni colorati dentro cui si rincantucciava. Neanche le notti erano tranquille, faceva sogni cupi, angosciosi, e spesso al mattino li ricordava ancora.
Svuotando la borsa dell’ospedale, poi, aveva pensato con struggimento che ogni oggetto le avrebbe ricordato quell’episodio, quindi pensò che fosse saggio liberarsene. Gettò tutto nella spazzatura con un misto di rabbia e rimpianto. Lo aveva raccontato alla madre, che aveva annuito comprensiva, confermandole che era stata veramente una buona idea eliminare tutto.
Ecco, questa era una delle cose che la irritavano e sconcertavano al tempo stesso: nessuno trovava da ridire sulle azioni un po’ eccessive e fuori luogo che compiva, anzi, tutti approvavano, mostrando una comprensione ai limiti del compatimento. La trattavano un po’ come se fosse di vetro, tutto le era concesso, quindi spendere un sacco di soldi per un abito era accettabile, anzi faceva proprio bene, così si distraeva. Come quella volta che aveva pagato una cifra spropositata per una borsa di marca, piuttosto ampia, che già da vuota era pesante. Per farci cosa? Se mai avesse avuto un bambino, sarebbe stata inutilizzabile, dato il suo peso assurdo . E se non l’avesse avuto, quali cose importanti avrebbe trovato da metterci dentro?
Cercava comunque di farsi forza, di riprendere a fare quelle cose che le erano sempre piaciute, ad esempio nuotare. Anche se era il suo sport preferito, esitava a tornare in piscina. L’ultima volta che era andata era ancora incinta e, dato che cominciava pian piano a sentirsi meglio, non voleva intraprendere attività che potessero farla retrocedere nel suo percorso.
Nonostante ciò, l’acqua era il suo ambiente preferito; anche prima di rimanere incinta, pensava che il nuotare facesse rivivere le sensazioni meravigliose che prova un feto cullato nel liquido amniotico. Un giorno si decise ad andare. La prima vasca, come al solito, era la più bella: Anna aveva indossato il costume olimpionico, si era fermata sul bordo, aveva sistemato cuffietta e occhialini ed era entrata lentamente. Si era immersa, gli occhi spalancati per gustare la familiare sensazione: lei lo sapeva, nella pancia della mamma si era sentita così, e pur non avendone alcuna memoria, il suo corpo ricordava perfettamente.
A volte pensava che avrebbe voluto essere come l’acqua che, con le parole di una vecchia canzone di Finardi, si lascia andare, scivola su tutto, si fa assorbire, supera ogni ostacolo, finché non raggiunge il mare e lì si ferma a meditare per scegliere se essere ghiaccio o vapore, se fermarsi o se ricominciare.

Era quasi maggio, c’erano i ponti di primavera, ma il tempo rimaneva uggioso e instabile. Un’amica le aveva proposto una fuga di alcuni giorni alla ricerca di un po’ di tempo sereno. Anna era sempre stata meteoropatica, quindi quel tempo grigio non aiutava la sua strisciante malinconia. Il dolore acuto dei primi tempi si era andato stemperando in un sentimento più soffuso. Aveva smesso di piangere tutti i giorni, ma ora si sentiva totalmente svuotata. Ovviamente, tutti in casa sua ne furono entusiasti. Continuavano a considerarla una malata grave, pensava Anna con una punta di rabbia.
Scelsero Malta, abbastanza vicina ma in mezzo al Mediterraneo. L’aereo decollò sotto la pioggia, sorvolando una Bologna noiosa e malinconica. Arrivarono a destinazione nel pomeriggio e un pulmino le trasportò all’hotel che avevano prenotato. Fecero il check in, lasciarono i bagagli in camera e poi scesero subito nella hall, dove l’addetto dell’agenzia viaggi avrebbe spiegato loro il programma per i giorni successivi.
Il grande salone della reception aveva delle immense vetrate che davano direttamente sul mare, tutte aperte per lasciar entrare una brezza leggera insieme al profumo della salsedine. Nei momenti di silenzio si poteva sentire l’ipnotico sciabordio dell’acqua che sbatteva contro i pali del molo.
Anna ascoltava distrattamente l’elenco delle escursioni a cui si poteva partecipare. Era intenta a osservare affascinata la distesa di acqua che si spalancava davanti a lei, i suoni, i profumi, le sfumature di colore. Come sempre le accadeva quando lo guardava, si perse completamente nella contemplazione del mare, immemore di tutto.
I giochi di luce la portarono lontano nel tempo: Anna non era più lì. Era piccola ora, e lei e il fratello maggiore portavano i sandalini ortopedici. Una giovanissima mamma glieli rimetteva ai piedi e loro li toglievano di nuovo, cercando poi di sfuggirle. Correvano mano nella mano, scalzi nell’immensa spiaggia di Rimini. Finiva sempre che il papi, un agile trentenne, li acciuffava e riconsegnava alla moglie che, seduta sulla sabbia, un po’ sbuffando e un po’ ridendo, assisteva alle tentate fughe e alle urla quando papi finalmente li afferrava. Alla fine il papà e la mamma, giovani, splendenti di felicità, ciascuno con in braccio un bambino esausto ma felice, ritornavano sorridenti verso casa.
Anna si riscosse, anche lei stava sorridendo. Aveva fatto bene a scegliere il mare e la sua acqua, che accarezza, culla e sommerge, che cancella e lava via tutto, e lascia pulita, fresca, di nuovo bambina, pronta a vivere la vita. Rinata.

Anna appoggiò il libro sul pouf dove aveva disteso le gambe e si stiracchiò sulla poltrona. Si alzò e si avviò verso la cucina. Era già buio, i pomeriggi erano sempre più corti, ma un buon libro, letto senza disturbi esterni, accovacciata su una morbida poltrona davanti alla stufa a legna, era quanto di più vicino alla felicità potesse immaginare.
Il romanzo di Valérie Perrin aveva suscitato in lei un’onda di ricordi, risvegliati dal fluire della storia. Prese velocemente la penna e si segnò alcune frasi per ricopiarle poi sul suo quaderno:

Ho visto il Mediterraneo per la prima volta
dal sedile posteriore della macchina di Célia.
Ho abbassato il finestrino e pianto come una bambina.
Credo di aver avuto il più grande shock della mia vita.
Lo shock del maestoso.

Mentre rifletteva che erano proprio trent’anni da quando era successo tutto, squillò il cellulare. E mentre lo cercava per rispondere, pensò che era sicuramente sua figlia.

Racconto di Maria Angela Maretti
Editing di Martina Costanzo


L’autore

Maria Angela Maretti nasce a Mirandola, in provincia di Modena, nel 1963. Dopo la maturità classica si laurea a Bologna in Lingue e letterature Straniere e Moderne (Inglese e Tedesco). Lavora in aziende biomedicali della zona, collabora con una scuola privata dove insegna inglese e si occupa dell’alfabetizzazione di donne straniere.
La sua passione è la lettura, ama molto la letteratura angloamericana, i gialli scandinavi e il noir italiano. Ha sempre desiderato scrivere, poi, allo scoppio della pandemia, ha cominciato approfittando della forzata permanenza in casa. La forma narrativa che preferisce è il racconto, dove spesso unisce spunti autobiografici e trame di fantasia.

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