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Hopper: poeta della solitudine

Fotografia di Filippo Ilderico

Edward Hopper è un pittore, esponente del realismo americano, noto per aver riportato su tela in maniera molto efficace il tema della solitudine nell’età moderna.

Nonostante ciò, in più di un’occasione egli prende le distanze da chi sostiene quest’idea: questa storia della solitudine secondo lui è esagerata. Egli infatti preferisce che le motivazioni profonde delle sue opere, in quanto intime, restino indefinite. Da cosa, allora, deriva questa sua nomea?

Nell’osservare le opere di Hopper si è inevitabilmente colti da una sensazione di malinconia: i soggetti che egli sceglie come protagonisti delle sue tele sono come sospesi, alienati, dalle persone e dagli spazi che li circondano. Questi uomini e donne sono fondamentalmente soli: incapaci di ritrovare nell’altro un proprio simile e di sentirsi compresi. Questo genera una massa di persone asettiche, da cui non sembra emergere empatia, umanità, volontà di relazionarsi. Non si tratta d’altronde di un tema nuovo alla pittura, specie moderna e contemporanea, basti pensare all’opera di Munch che raffigura una serie di persone indistinte, simbolo dell’ipocrisia borghese, su viale Karl Johan. Anche in questo caso, protagonista assoluta della tela è proprio la solitudine, l’incomunicabilità.

Oltre alle pose (talvolta di spalle, talvolta per esempio con uno sguardo assente), nel caso di Hopper, a contribuire in maniera determinante a creare questo tipo di atmosfera è la luce, una luce che evoca una sensazione di intimità e che gioca un ruolo importantissimo nel modo di dipingere dell’autore; egli infatti sostiene di preferirla di gran lunga come componente rispetto al colore.

Un altro fattore fondamentale è l’inserimento di strutture architettoniche all’interno delle scene raffigurate, per lo più di vita quotidiana. Tavoli, colonne, finestre, servono a marcare una separazione tra i protagonisti delle tele e lo spettatore che osserva come una sorta di voyeur e che si può considerare come un intruso rispetto ai contesti raffigurati.

Altro tema della sua opera è infatti, più specificatamente, la solitudine della città moderna, unita all’impossibilità di potervi trovare uno spazio che sia realmente intimo; questo è esplicitato proprio dalla prospettiva dello spettatore come voyeur, che serve a rappresentare come, in una città, si riescano a vedere anche luoghi e situazioni che non si sarebbe invitati a vedere; è ciò che avviene tramite appunto gli elementi architettonici, in primis le finestre. Questi quadri sembrano quasi riprese cinematografiche, sicuramente numerose sono ad esempio le analogie tra Night windows e il famoso film di Hitchcock La finestra sul cortile.

Altrettanto “cinematografica”, nonché sintesi delle caratteristiche sopra elencate, è una tela del 1932, Room in New York.

In questo quadro vi sono due soggetti illuminati da una luce calda, accesa, che riflette le pareti gialle. Anche in questo caso è raffigurata in primo piano una finestra, da cui il pittore e lo spettatore sembra stiano spiando la scena davanti a loro: un uomo e una donna, pur essendo insieme, pur essendo nella stessa stanza, non sembrano degnarsi reciprocamente neppure di uno sguardo. L’uomo è assorto nella lettura del giornale, la donna sta suonando una nota al pianoforte mentre si lascia, presumibilmente, trasportare dai pensieri, lontana dal suo compagno di vita. Nonostante i due siano una coppia, tra loro sembra non ci sia alcuna complicità, anzi è come se aleggiasse un sentimento di estraneità che, nel quotidiano, purtroppo è spesso presente.

Oggi ancor di più si avverte questo senso di profonda solitudine e silenzio in tempi in cui la quarantena, il distanziamento e la separazione fisica e geografica, necessari a contenere la pandemia in corso, sono diventati, gioco forza, abitudini diffuse.

Marta Casuccio

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