«Le persone, i luoghi e i fatti che si trovano in questi racconti, sono immaginari. Ogni riferimento alla realtà è puramente casuale»: questa è l’indicazione che Natalia Ginzburg decide di porre all’inizio del suo romanzo breve.
Valentino, appunto, romanzo breve, viene pubblicato nel ’51 da Einaudi, casa editrice torinese alla quale la scrittrice nata a Palermo nel 1916, rimarrà sempre legata.
Eugenio Montale, in un suo pensiero su Lessico famigliare, capolavoro che la Ginzburg pubblicherà dodici anni dopo Valentino, nel 1963, scrisse, facendo riferimento alla vita dell’autrice:
«[…] e soprattutto incapace di vivere una vita che non sia in poesia.»
Parole, quelle di Montale, che risuonano come una melodia nella mente dei lettori che sono affezionati e legati all’opera e alla persona di Natalia Ginzburg, «la corsara», come viene definita da Sandra Petrignani nel suo ultimo libro finalista al Premio Strega.
Ma non è del suo romanzo che questo articolo vuole parlare. Si vuol fare riferimento, invece, a Valentino; un romanzo breve, intenso e che porta con sé, come scrisse Cesare Garboli, il suo più grande critico, «il respiro ampio della vita».
Un romanzo, o piuttosto un racconto lungo, ancora più breve dei precedenti, un insieme di pagine che affrontano, con grazia e delicatezza, un tema nuovo, del tutto insolito nella tematica della scrittrice: l’omosessualità. Chi conosce l’opera di Natalia Ginzburg è abituato all’immagine, oserei dire atipica, che l’autrice rappresenta e offre al lettore del sesso maschile. Uomini che piangono, spesso soli e, come tutti, spesso fragili.
Nonostante questa sorta di rappresentazione che elimina qualsiasi stereotipo da uomo malato del suo gene alpha, il tema dell’omosessualità è per Natalia – e forse per tutti gli autori di quell’epoca – un tema nuovo, quasi sperimentale. Numerosi sono i personaggi omosessuali nel secondo Novecento: dalle donne di Pavese, ai ragazzi scandalosi di Pasolini, passando per Giorgio Bassani e approdando, infine, all’isola del protagonista di Elsa Morante, Arturo Gerace. Una tematica certamente non priva di quelle conseguenze, di quelle discussioni e di quegli scalpori che un tale argomento, all’epoca, ha suscitato nei lettori e non solo.
Valentino è, ancora una volta, un uomo vago, un po’ fatuo, debole e dispersivo, al centro dell’affetto di una famiglia – padre, madre, sorella – che lo ama e lo cura come un essere prezioso dal quale ci si aspetti uno splendido futuro. Ma le ambizioni famigliari sono destinate alla delusione:
«Valentino invece non pareva che avesse voglia di diventare un grand’uomo: in casa, di solito, si divertiva con un gattino […] Oppure si vestiva tutto da sciatore e si guardava nello specchio […]. Si trovava molto bello così vestito […] e s’affacciava al balcone per farsi vedere dai bambini della portinaia».
Il ritratto di questo personaggio è già delineato, e chiaro è anche il suo destino, ancora inconsapevole della meta cui il suo indolente e frivolo cammino, infine, dovrà condurlo.
Contribuisce a tutto questo, oltre all’indole già segnata, un’errata educazione volta ad accondiscendere più che a indirizzare, basata su un affetto che ha del cultuale, specie da parte del padre, cieco di fronte alla propria ambizione accentrata su quell’unico figlio maschio che, nei suoi sogni, dovrà riservargli, un giorno, le più grandi soddisfazioni.
In amore Valentino è quanto mai volubile e il corteo delle ragazze del liceo con cui si fidanza di continuo sembra non debba avere mai termine fino al giorno in cui non si fidanza sul serio, fra l’orrore dei parenti, con Maddalena: una donna quasi matura, ricca e, soprattutto, brutta. È la inevitabile conseguenza della sua fatuità e pigrizia, ma soprattutto della sua insicurezza: quella donna rappresenta, per lui, il porto sicuro al riparo dai problemi che non è in grado di affrontare e la moglie anziana accoglie fra le sue braccia un marito bambino da curare e vezzeggiare nei rari intervalli che la cura dei suoi interessi le consentono.
Valentino passa così da una campana di vetro all’altra, continuando a comportarsi nel modo irresponsabile e infantile che gli è proprio, fingendo di studiare ma, in realtà, prendendo in mano i libri solo quando sente avvicinarsi i passi della moglie e, per il resto del tempo, crogiolandosi nelle sue vanità puerili e velleitarie. La nascita dei figli non porta alcun mutamento, se non quello esteriore della presenza della sorella, venuta, dopo la morte della madre e del padre, a vivere con il fratello e la cognata, per occuparsi un po’ dei bambini. Valentino continua ad alzarsi tardi, a bighellonare, a giocare a carte con l’amministratore e un cugino della moglie, un certo Kit, che da poco si è aggiunto alla compagnia, mentre la sorella e la balia si occupano dei bambini e Maddalena, infaticabile donna d’affari, è sempre fuori casa, alle prese con le sue terre e i contadini da sorvegliare e controllare.
Kit è la molla che fa scattare il congegno latente, lo stimolo che muove il tarlo riposto nella coscienza addormentata di Valentino. E Kit è anche l’uomo che la sorella di Valentino pensa di sposare. È diventato il compagno delle ore d’ozio di Valentino, il quale, ora, è ancora più capriccioso e intollerante e comincia ad avere screzi con la moglie, fra il disagio di tutti. Kit propone alla ragazza di sposarlo, ma si affretta a dichiarare di non esserne innamorato: sarà un tentativo, nella speranza che vada bene. Ma dopo un brevissimo periodo di fidanzamento di appena venti giorni, Kit ritira la sua proposta, senza dare che delle ambigue, prudenti spiegazioni.
Alla ragazza, che ha lasciato la casa del fratello, giungerà di lì a poco una lettera di Valentino che, accusando la propria insopportazione per una vita coniugale divenuta ormai intollerabile la prega di raggiungerlo. Nella lettera c’è anche la comunicazione della morte di Kit. Sarà Maddalena, rimasta sola dopo la separazione dal marito, a spiegarle che Kit si è ucciso dopo aver lasciato una lettera per Valentino; una lettera tale da spingerla e frugare nei suoi cassetti che ha trovato pieni di lettere e di fotografie del marito.
Fratello e sorella ricompongono in silenzio e malinconia la famiglia di una volta di cui sono, ormai, i soli superstiti. Lei esce la mattina per andare ad insegnare, lui resta a ciondolare in vestaglia per casa, leggendo giornaletti, sempre più pigro, sempre più assente. È, il loro, un sodalizio muto e senza scosse.
«Non parliamo mai di Maddalena, Valentino e io. Non parliamo neppure di Kit. Tratteniamo le nostre parole ben ferme su piccole cose, su quello che mangiamo o sulla gente che abita di fronte».
È l’unico modo vile e insincero che permetta alla sorella di non perdere la sola cosa di cui la vita non l’abbia privata, anche se è ben misera cosa: un fratello che ha sempre preso tutto senza dare nulla, che è passato in mezzo al dolore degli altri senza venirne toccato e che non si accorge nemmeno adesso di essere la causa del fallimento morale della sorella che gli si è dedicata rinunciando a se stessa, che continua imperterrito la sua esistenza parassitaria, forse di tanto in tanto animata da incontri segreti, quando, di pomeriggio, esce e, col suo solito passo «felice, trionfante e libero», gira l’angolo della strada e scompare.
Se negli anni Cinquanta una tematica come quella dell’amore omosessuale era considerata un’eccezione non priva di discussioni e, perché no, di scalpore, negli ultimi anni il panorama letterario della nostra modernità si è arricchito sempre di più di romanzi che possono essere definiti “Letteratura gay” o “Letteratura lgbt”.
Nonostante non tutti apprezzino tale classificazione, è utile sottolinearne l’importanza o, almeno, la presenza massiccia nelle librerie.
Sono numerosi i romanzi che trattano di un amore omosessuale e, se il libro della Ginzburg in quegli anni non le portò il successo che invece venne consacrato con Lessico famigliare, i libri di cui brevemente si fa menzione possono considerarsi benissimo un caso letterario.
Il primo è Camere separate di Pier Vittorio Tondelli del 1989: un libro struggente, tragico ma che riesce ad esprimere in maniera esemplare l’amore tormentato tra Leo e Thomas. Con pennellate poetiche e struggenti il romanzo dipinge la storia di un amore e di un abbandono feroce attraverso lo sguardo tenero e smarrito di Le, un giovane uomo alla perenne ricerca della felicità.
Il secondo libro è forse uno dei casi letterari più recenti, ovvero Chiamami col tuo nome di André Aciman, pubblicato nel 2007 e reso ancor più celebre dalla trasposizione cinematografica di Luca Guadagnino.
La vicenda narrata è ambientata nel 1987. Il romanzo è il racconto di un rapporto di amicizia che si trasformerà in una storia d’amore tra due ragazzi: il protagonista, il diciassettenne Elio, e Oliver, un ragazzo americano che, durante il soggiorno estivo, lavorerà con il padre, un professore universitario.
Limitandomi a citare solamente due dei numerosi libri che negli ultimi trent’anni hanno avuto come protagonista un amore omosessuale, si è voluto sottolineare come una tematica che negli anni Cinquanta del Novecento poteva essere considerata di nicchia o, semplicemente, taciuta, nella nostra contemporaneità è riuscita ad ottenere quella dignità letteraria che spesso non le è stata data.
Il tutto, almeno per quanto riguarda la letteratura, senza pregiudizi di alcun tipo.
Alessandro Crea