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Se il dolore diventa piacere: una vita per le versamine

Versamine
Disegno di Giulia Pedone

In Versamina, (1966) Primo Levi immagina la scoperta di sostanze che invertono il dolore con il piacere e interroga i suoi personaggi sul valore di una vita donata al godimento.

Nelle infinite possibilità delle combinazioni chimiche qualcosa di irresistibile muove lo scienziato che non si accontenta delle sperimentazioni di routine, ma spinge oltre la sua ricerca. Kleber – o, come era chiamato, “Wunderkleber” (Kleber dei miracoli) – seguiva da tempo uno studio sui benzoilderivati, quando per caso si imbatte nelle “versamine”, «sostanze che convertono il dolore in piacere» [1]. A presentare la sua storia non è il protagonista, morto infatti anni prima, ma è Dybowski, collega suo e di Jakob Dessauer, anch’egli studioso dell’Istituto in cui si ambienta il racconto Versamina e narratore interno di quest’ultimo. Della vicenda di Kleber, infatti, rimangono solo le testimonianze confuse di chi lo incrociava in laboratorio, mentre una sua storia ufficiale non è mai stata resa nota e i dossier delle sue ricerche sono stati distrutti da lui stesso, accortosi della pericolosità delle scoperte di cui si pentì. Primo Levi, in una delle sue storie più controverse, conduce il lettore lungo l’itinerario di follia di esperimenti che si spingono fino ad invertire gli equilibri di natura, associando il dolore alla soddisfazione dei bisogni, il piacere alle ferite.

Tra i vari benzoilderivati, l’attenzione di Kleber si focalizza sul 41°, il B/41, che aveva causato comportamenti insoliti su qualche cavia, che «rifiutava il cibo, e invece masticava il legno, mordeva i fili della gabbia, fino a farsi sanguinare la bocca» [2]. Non tutti gli animali presentavano gli stessi sintomi: alcuni manifestavano anomalie per qualche giorno, altri invece sembravano «capovolti, e non guarivano più, come se per loro il piacere e il dolore avessero cambiano posto definitivamente: questi morivano tutti» [3]. Kleber interferisce con l’apparato percettivo di questi organismi, alterando la comunicazione che c’è tra loro e l’esterno: se ciò che nutre ora crea disgusto e ciò che danneggia provoca piacere, il soggetto non è più in grado di recepire lucidamente i contatti che provengono da fuori e le conseguenze di questi vengono mal interpretate. Un corpo i cui sensi sono ingannati è un corpo che non sa relazionarsi con l’esterno e, per questo, muore inevitabilmente.

Il B/41 è, però, solo un abbozzo di quella che sarebbe diventata una sostanza più sofisticata e efficace, la versamina DN, che Kleber, tramite l’azienda OPG, mette in commercio come semplice analgesico, i cui effetti nascosti poi trapelano. «Il nuovo analgesico è stato incettato in un momento, […] poco dopo la polizia ha trovato […] un club di studenti, dove pare si facessero orge di un genere mai visto prima: […] sono state sequestrate centinaia di bustine di aghi, e poi delle tenaglie e dei braceri per arroventarle» [4]. La licenza dalla OPG viene poi venduta alla marina americana, la quale tenta un’applicazione militare: «si pensava che [i soldati] avrebbero dimostrato chissà quale coraggio e sprezzo del pericolo, […] ma pare che davanti al nemico si siano comportati in modo abbietto e assurdo, e che per di più si siano fatti ammazzare tutti quanti» [5]. Quello che nasce come semplice antidolorifico applicato all’uomo, se potenziato, può allargare il suo effetto terribilmente: anche un prodotto nato da un intento positivo, se elevato esponenzialmente, produce conseguenze negative che superano le previsioni del suo stesso creatore. «Kleber si accorse subito che […] si poteva fare molto di più: un poco come la faccenda della bomba di Hiroscima e delle altre che vennero dopo. […] Questi credono di liberare l’umanità dal dolore, quelli di regalarle l’energia gratis, e non sanno che niente è gratis, mai: tutto si paga» [6].

Non a caso, il racconto Versamina è inserito nella raccolta Storie naturali, pubblicata da Levi sotto lo pseudonimo di Damiano Malabaila. La scelta del nome, che l’autore stesso riteneva casuale, si rivela infatti, in un secondo momento, particolarmente pregnante. «Malabaila significa “cattiva balia”; ora, mi pare che da molti dei miei racconti» spiega l’autore «spiri un vago odore di latte girato a male, di nutrimento che non è più tale, insomma di sofisticazione, di contaminazione e malefizio. Veleno in luogo dell’alimento» [7]. Versamina si accomuna agli altri scritti della raccolta proprio perché tratta di una natura che è stata guastata, un ordine che è stato sovvertito. Così l’autore aveva visto accadere nel mondo rovesciato di Auschwitz, dove la ragione aveva lasciato il posto all’irrazionalità, creando una realtà infernale. Il racconto si svolge su simili tensioni duali tra dolore e piacere, benefico e dannoso, giusto e sbagliato: è il paradosso insito in sostanze che portano alla distruzione, provocando piacere. La città stessa in cui avvengono i fatti si presenta come «intatta negli edifici, ma scossa intimamente […] sensuale senza passione, chiassosa senza gaiezza: […] il teatro più adatto per la storia contorta» [8]. In queste tensioni duali si trova il carattere parodico del racconto: l’autore, infatti, non descrive una finzione, vuole invece raccontare la realtà nella sua accezione più esagerata, nel suo “così è troppo”. La parodia di Versamina incuriosisce e crea disagio, allo stesso afferma e smentisce, presenta un racconto inventato, ma per allertare circa una realtà che potrebbe verificarsi: è ambigua.

I prodotti di Kleber riescono a raggirare i sensi delle cavie, conservando però la coscienza di queste: le bestie cercano il piacere che deriva dal lacerarsi, pur coscienti che queste azioni portano alla loro stessa distruzione. La follia delle vittime di questi esperimenti inganna le loro percezioni, ma non completamente la loro mente. Quando Dybowski, diventato collaboratore di Kleber, inizia a somministrare a piccole dosi di versamina ad un cane meticcio, questo inizia a ripugnare la carne e l’acqua, ingoiare sassi e a bere soluzioni di laboratorio. Secondo lo stesso scienziato, però, «aveva capito come un uomo, sapeva che quando si ha sete bisognava bere, e che un cane deve mangiare carne e non fieno, ma l’errore, la perversione erano più forti di lui. Davanti a me [a Dybowski] fingeva, si sforzava di fare le cose giuste, non solo per farmi piacere e perché io non mi arrabbiassi, ma anche, credo, perché sapeva, continuava a sapere quello che era giusto» [9]. Chi è sotto effetto delle versamine conserva ancora un margine di libero arbitrio e può, dunque, produrre una decisione libera. Se, dunque, questo sceglie di ferirsi per il piacere che questo gli provoca piuttosto che conservarsi incolume, esso compie una scelta cosciente.

Nonostante gli esperimenti parlassero chiaro circa le conseguenze pericolose delle versamine, Kleber inizia ad usarle su di sé e questo diventa chiaro agli occhi di Dybowski, che vede il collega smettere di fumare e iniziare a grattarsi creandosi ferite sempre più profonde. «Dimagriva, si consumava come uno che avesse il cancro. Si vedeva che cercava di resistere, di tenere per sé solo il buono, quella valanga di sensazioni gradevoli, magari anche deliziose, che le versamine procurano con facilità, e gratis. Gratis solo in apparenza, si capisce, ma l’illusione era irresistibile» [10]. Se per queste sensazioni gradevoli, l’uomo è disposto a lacerarsi la pelle fino alla follia, ci si chiede fino a che punto arriverebbe egli pur di godere. In quest’ottica, un piacere che porta alla distruzione varrebbe il sacrificio di una vita e questa, dunque, troverebbe la sua ragione di esistere nell’intrattenimento dei sensi. È ciò per cui si è disposti a morire che rappresenta il motivo per cui si è vissuti. Ci si domanda se l’intero mistero di una vita possa ridursi all’eccitazione dei sensi, se non ci sia qualcosa di più per cui vale la pena sopportare il dolore che vivere richiede.

Questa riflessione non vuole ridursi ad una banale denuncia contro gli stupefacenti o agli intrattenimenti di ogni genere, quanto invece stimolare la ricerca nell’uomo del motivo, dell’ideale o della persona per il quale egli intende vivere al punto da donare se stesso: per meno di questo non si vive. Dessauer, che per tutta la durata del racconto di Dybowski è sembrato assentire alle critiche del collega contro l’uso distorto della scienza di Kleber, nelle ultime righe traccia la sua riflessione e prende una posizione in merito alla questione. «Pensava che il dolore non si può togliere, non si deve, perché è il nostro guardiano. […] Pensava anche, contradditoriamente, che se avesse avuto in mano il farmaco lo avrebbe provato; perché, se il dolore è il guardiano della vita, il piacere ne è lo scopo e il premio […] pensava che se le versamine sanno convertire in gioia anche […] il dolore di un vuoto attorno a te […] di sentirti finito, ebbene, perché no?» [11]

Non sono le parole di Dessauer, però, a chiudere il racconto, ma la voce delle tre streghe di Macbeth di Shakespeare («fair is foul, and foul is fair»), che torna alla memoria dello stesso scienziato, per ricordargli come sia volubile e debole la sensibilità umana, che confonde giusto con sbagliato e viceversa.

Alice Dusso


[1] Primo Levi, Versamina, in Storie Naturali, in Id., Tutti i racconti, a cura di M. Belpoliti, Einaudi, Torino 2000, p. 79.
[2] Ivi, p. 76.
[3] Ivi, p. 78.
[4] Ivi, pp. 81-82.
[5] Ivi, p. 82
[6] Ivi, p. 78.
[7] P. Levi in Gabriella D’Angeli, Il sonno della ragione genera mostri, «Famiglia Cristiana», 27 novembre 1966.
[8] P. Levi, Versamina, in Storie Naturali, p. 78.
[9] Ivi, p. 80.
[10] Ivi, p. 82.
[11] Ivi, p. 84.

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