Edoardo Sanguineti (Piangi piangi, 1964) intreccia simboli del consumismo con strumenti di guerra in una cantilena per bambini che indaga la risposta al dolore dell’uomo moderno.
Giocattoli di plastica blu e bombe a mano, animali in gommapiuma e coltelli a serramanico, assieme a elettrodomestici firmati e azioni societarie: il bambino di piangi piangi è cullato tra le sirene di un mondo modernissimo, ma ancora non smette di singhiozzare. Edoardo Sanguineti canta una denuncia alla società del consumo e della guerra nella forma di una nenia popolare, in cui il tenero mondo infantile stride a contatto con la mediocrità del consumismo e l’efferatezza della violenza bellica.
I versi sono liberi, lunghi al limite con la prosa e talvolta spezzati: il poeta, tra i fondatori del Gruppo 63, per poter rompere con il capitalismo stantio dell’epoca, infrange le forme tradizionali della letteratura e si lancia in uno sperimentalismo formale, che contraddistingue la sua intera poetica. Generi e registri si mischiano, inglobando tutti i codici linguistici in una struttura sintattica che è testimone diretta della realtà quotidiana nell’uso di figure come i parallelismi e il “che polivalente”.
Eletto alla Camera dei Deputati come indipendente nelle liste del PCI, Sanguineti rende la sua produzione letteraria lo specchio fedele e coerente del suo impegno politico, sottolineando nelle sue opere le contraddizioni su cui la società si regge. La critica sociale e politica dell’autore non si esaurisce, però, in una polemica disfattista e fine a se stessa, ma con Purgatorio de l’Inferno, raccolta in cui è contenuto piangi piangi, lascia il margine per una correzione – “purgatoriale”, appunto – dei mali e delle storture della società “infernale”. Nella peculiare e a tratti inquietante ninna-nanna moderna in analisi, la nascita del fratellino, annunciata nell’ultima strofa, rappresenta la speranza per un’umanità che può salvarsi dall’apocalisse del consumismo solo grazie ai rapporti familiari e all’autenticità di questi nel “chiamarsi per nome” [1]. Infatti, se per tutta la lirica i beni di consumo elencati sono presentati come meri oggetti anonimi del verbo “comperare”, il fratellino è l’unico ad essere interpellato in quanto Michele. Il nome proprio riscatta la persona umana dall’anonimato, facendone emergere l’unicità a fronte di un mondo di fabbricazioni in serie: è il rapporto personale e familiare che, “chiamando per nome” l’essere umano, ne contraddistingue l’autenticità e irripetibilità.
Accanto all’evidente critica sociale e politica che la poesia rivela ad un primo livello, si legge anche un appello diretto al singolo. Infatti, se il giudizio rivolto ad una collettività non mette in discussione l’individuo, le accuse ad un’entità spesso indefinita e mal interpretata come “la società” cadono nel vuoto. La lirica chiama in causa, appunto, un’abitudine del singolo a porre rimedio alla sua sofferenza con piaceri effimeri, siano questi beni di consumo o relazioni superficiali, messe in piedi per soddisfare capricci e colmare momentaneamente le mancanze dell’individuo.
Secondo questa lettura, versi come «piangi piangi che ti compero una lunga spada blu di plastica, un frigorifero / Bosch in miniatura, […] un’azione della Montecatini» [2] sono promesse che il padre fa al figlio affinché la sua sofferenza si acquieti per un po’. Il «che» introduttivo della seconda proposizione svolge dunque una funzione consecutiva, che rappresenta la conseguenza delle lamentele del bambino: se questo continua a piangere avrà, sì, una consolazione, ma sarà un conforto posticcio, facile a consumarsi in poco tempo, che non risolverà il suo dolore. La poesia, dunque, parla chiaro al lettore: non occorre acquistare beni di consumo, per avere un approccio consumistico alla vita. Rapporti ed esperienze, quando “divorati” fino all’esaurimento del piacere temporaneo che apportano, sono rimedi fittizi che permettono di girare al largo da ferite e questioni irrisolte, temporeggiando piuttosto che affrontarle. Serie tv e rapporti di comodo sono palliativi inefficaci a lungo termine tanto quanto i giocattoli per un bambino che non dorme.
Il «che» introduttivo del primo elenco presenta una serie di oggetti simbolo del consumismo e dei piaceri effimeri secondo il valore consecutivo per cui ai pianti del bambino seguiranno delle consolazioni: lo stesso significato assumeranno i «che» seguenti, che si accosteranno ad oggetti simili, come nel verso «piangi piangi che ti compero un grosso capodoglio di gommapiuma» [3]. Nel corso della poesia, però, negli elenchi compaiono prodotti ambigui e strumenti che non riguardano il mondo borghese, quanto invece quello degli scontri armati. In questo caso il «che» assume un valore causale, per cui il pianto del bambino è messo in una relazione di effetto rispetto ai drammi della violenza bellica, ma con un’accezione ironica e provocatoria.
L’autore, che attraverso la figura del figlio si rivolge in realtà all’uomo contemporaneo, chiama in causa quest’ultimo circa le cause delle sue sofferenze. L’uomo piange: ma lo fa per il dolore di guerre e scontri che mettono in ginocchio nazioni o perché è concentrato solo sulle sue fatiche di uomo? È perlomeno cosciente dell’esistenza di questa sofferenza che supera di gran lunga la sua dimensione quotidiana? «Piangi piangi che ti compero / una piccola maschera antigas, […] un coltello a serramanico, una bella scheggia di una bella / bomba a mano» [4]: quelli elencati sono tutti oggetti con cui l’uomo moderno ha tristemente familiarità, seppur si inganni relegandoli ai conflitti che si combattono lontano dai salotti cittadini. I «francobolli / dell’Algeria francese» fanno memoria della sanguinosa guerra d’indipendenza che ha visto la violenza crudele dei colonizzatori francesi – le «teste di legno» – abbattersi sui coloni algerini – le «teste di moro» – lasciandosi dietro numerosi caduti – le «teste di morto» [5].
L’esplicita menzione di un conflitto – quello franco-algerino – arriva solo nella penultima strofa del componimento: nei versi precedenti si annoverano oggetti che oscillano sul confine ambiguo tra giocattoli e armi di offesa. La guerra, dalla «lunga spada blu di plastica» [6] del primo verso, si fa sempre più inquietantemente presente nella lirica, nella forma di un coltello a serramanico, di una scheggia di una bomba a mano e delle teste dei cadaveri del conflitto della colonia. La denuncia della sofferenza bellica, di verso in verso, si fa quindi più urgente, quasi a voler allarmare circa una situazione, la cui gravità non è più sostenibile. L’uomo contemporaneo, dunque, non può mettere a tacere anche questo dolore con qualche analgesico economico, che lo distragga dal confrontarsi attivamente con drammi che, seppur lontani nello spazio, lo chiamano in causa.
La sofferenza della guerra non pare, però, tale da scomodare i lamenti di chi, a fronte delle proprie questioni irrisolte, preferisce annebbiare le sue preoccupazioni con un piacere consumistico. Le cure palliative che il consumismo e la superficialità umana applicano al dolore non valgono a calmare il pianto: solo la nascita di un fratellino convertirà il «piangi piangi» [7] in un «ridi ridi» [8]. La speranza rinasce sempre e solo da un rapporto umano autentico, chiamato per nome, e da un confronto con una realtà che non sfugge al dolore, ma sa saggiarne il peso e accettarne le conseguenze.
Alice Dusso
[1] cfr. Edoardo Sanguineti, piangi piangi, in Purgatorio de l’Inferno, Triperuno, Feltrinelli, Milano 1964, v. 13.
[2] Ivi, vv. 1-3.
[3] Ivi, v. 6.
[4] Ivi, vv. 3-9.
[5] Ivi, vv. 9-11.
[6] Ivi, v. 1.
[7] Ivi, v. 1.
[8] Ivi, v.12.