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Con un archibugio ai tempi del nucleare

Ariosto
Disegno di Giulia Pedone

Tra il IX e l’XI canto dell’Orlando Furioso (1516), Ariosto descrive una terribile e straordinaria arma, un anacronistico archibugio, espediente per l’invettiva dell’autore contro le armi da fuoco.  

È il nono canto del Furioso e Orlando, nonostante sia diretto all’isola d’Ebuda per salvare Angelica dall’orca, decide di soccorrere Olimpia, figlia del duca d’Olanda. La giovane nobile, promessa sposa di Bireno, ha rifiutato le nozze con il figlio di Cimosco, re di Frisa, che per vendetta ha invaso l’Olanda e imprigionato Bireno. Olimpia chiede l’aiuto di Orlando, che si impegna nell’ennesima impresa non perché sia coinvolto personalmente in essa, ma perché spinto dal puro amore per la giustizia e la cortesia. L’intreccio del poema si arricchisce così di un’ulteriore avventura, parallela alle trame principali, che ad Ariosto, però, serve per esprimere la sua chiara presa di posizione circa i mutamenti che stavano rivoluzionando l’arte militare del suo secolo.

Cimosco, infatti, è in possesso di un’arma nuova e straordinaria, un ferro cavo che con il minimo tocco del fuoco, spara. Si tratta di un archibugio ante litteram: del tutto nuovo agli occhi dei cavalieri dell’VIII sec, ma ben conosciuto dai contemporanei cinquecenteschi di Ariosto. Il re friso, così armato nel duello contro Orlando, scompare dalla vista del paladino e si nasconde dietro un angolo ad aspettarlo, «come il cacciatore al loco, / coi cani armati e con lo spiedo, attende / il fier cinghial che ruinoso scende» [1]. Cimosco è protetto dallo sguardo del nemico, pronto a sorprenderlo con un’arma contro cui nessuna spada può vincere: è il cacciatore che ha cani e lancia dalla sua parte e si scaglia contro un cinghiale solo e colto alle spalle. La posizione di netto vantaggio del re non gli vale la vittoria contro il più grande dei paladini, che, caduto a terra per il forte impatto dello sparo ma rimasto illeso, si rialza più forte di prima e lo uccide con la spada, mentre il re tenta vilmente la fuga.

Non deve sorprendere la vittoria della spada sull’arma da fuoco: si tratta pur sempre di una narrazione cavalleresca nel poema che porta il nome del paladino valoroso, il cui onore non può essere certo sconfitto nell’opera di cui è protagonista. Ciò che deve, invece, colpire il lettore è l’animo spregevole di Cimosco che attacca da lontano, alle spalle e ad armi impari il suo avversario, oltre all’eccezionalità della sua arma. Il fucile «dietro lampeggia a guisa di baleno, / dinanzi scoppia, e manda in aria il tuono», mentre tutt’attorno «trieman le mura, e sotto i piè il terreno; / il ciel ribomba al paventoso suono» [2]. La descrizione dello sparo ha in sé del meraviglioso, a sottolineare la decisa sproporzione tra gli effetti del nuovo ordigno e quelli delle vecchie armi. La tecnica ha ora raggiunto un traguardo dagli effetti scenici mirabili e dalle conseguenze militari tragiche: «l’ardente stral […] spezza e venir meno / fa ciò ch’incontra, e dà a nessun perdono» [3].

L’archibugio di Cimosco è l’espediente, di cui Ariosto si avvale per scagliare il suo strale nel dibattito cinquecentesco contro l’introduzione delle armi da fuoco negli apparati militari. Tra il XV e il XVI secolo, infatti, si assiste ad una rivoluzione nell’arte della guerra, che sancisce la crisi della cavalleria come reparto militare e, di conseguenza, il declino della figura del cavaliere, resa celebre dai racconti di materia bretone e carolingia. Ai sostenitori del combattimento antico, basato sul confronto ad armi pari e sull’uso della tattica, si oppongono i fautori della nuova tecnica fondata sulla supremazia delle armi da fuoco. Nel ‘500 le guerre si fanno più cruente e distruttive; la città di Pavia ne è testimone nell’omonima battaglia del 1525, che vede fronteggiarsi Francesco I di Francia e Carlo V, e che sancisce il momento di passaggio nelle strategie militari alle armi da fuoco. Ariosto, al tempo ancora governatore della Garfagnana, risente fortemente della sconfitta del sovrano francese, assieme a tutta la diplomazia ferrarese di cui faceva parte e che entrerà per questo in un periodo difficile a livello internazionale.

Ariosto attraverso l’episodio di Cimosco condanna l’uso delle artiglierie perché permettono anche al combattente più vile di godere di un vantaggio considerevole, che non ha nulla da spartire con il valore e la lealtà, qualità che un cavaliere dovrebbe invece vantare. Orlando alla fine del IX canto prende l’ordigno di Cimosco non per usarlo a sua difesa, ma per gettarlo nel mare, perché «sempre […] stimò d’animo molle / gir con vantaggio in qualsivoglia impresa» [4]. Egli se ne libera affinché «più non istea / mai cavallier per te [archibugio] d’esser ardito, né quanto il buono val, mai più si vanti / il rio per te valer» [5]. Il re friso, infatti, aveva tentato di colpire da lontano Orlando, per rischiare meno di sporcarsi le mani e la coscienza con l’omicidio del suo avversario, che, tuttalpiù, progettava di colpire alle spalle. La distanza permette a chi attacca di essere meno coinvolto emotivamente rispetto al confronto corpo a corpo, fino quasi ad alienare la coscienza del carnefice che non conosce neanche il volto della sua vittima. Chi è distante, inoltre, può nascondersi e venir meno, così, alla responsabilità delle sue azioni. Alienazione emotiva e lontananza fisica, sommate alla sproporzione delle armi da fuoco rispetto alle semplici, caratterizzeranno nei secoli successivi gli armamenti che la tecnica, sempre più innovativa, metterà a disposizione dell’uomo.

Il XV secolo segna il primo passo verso una rivoluzione nell’arte della guerra, che Ariosto coglie, a differenza di altri autori come Machiavelli, che nel trattato Dell’arte della guerra non percepisce la portata rivoluzionaria delle artiglierie, se non per l’assalto delle città. La condanna dell’autore ferrarese all’uso delle armi da fuoco non è frutto, però, di una visione nostalgica: Ariosto è consapevole della crisi militare della cavalleria, ma intende opporsi all’evoluzione delle guerre in cui è la forza bruta a prevalere.

A causa della violenza cieca di queste armi, «la militar gloria è distrutta» e «il mestier de l’arme è senza onore» [6]. L’ideale cavalleresco muore: ora la guerra è brutale. Ci si chiede, però, se essa sia mai stata altro che bestiale e se ci siano mai state, invece, battaglie degne di onore. La storia, da un lato, può confermare che ogni guerra ha portato sempre e solo a morte e distruzione e che non ci può essere crescita e sviluppo se non nella pace. D’altro lato, però, ci si chiede se il pacifismo sia un ideale sempre concretamente applicabile. Al di là di ogni efficace slogan per la pace, viene difficile chiedere agli ucraini nel 2022 di resistere all’attacco russo senza rispondere fuoco con il fuoco e senza, quindi, incrementare un conflitto, che si sta già estendendo considerevolmente.  Una difesa armata porta ad un attacco ancora più cruento, ma un’arresa statica non diminuisce il numero delle vittime e rischia, invece, di favorire l’annessione di territori contro la volontà della popolazione che li abita. In questo modo, il vile armato avrebbe la meglio sul valoroso pacifista. Il coraggioso combattente, allora, si vedrà costretto a lottare per la pace con l’onore di chi difende la propria libertà, anche a costo di combattere il nucleare con un archibugio. Non sempre, infatti, dietro il forte si cela l’eroe, né dietro il debole si nasconde l’infame.

Ariosto non limita al IX canto la sua condanna alle armi da fuoco, ma riprende la sua invettiva nell’XI canto, quando prevede che non basterà l’aver gettato via l’archibugio di Cimosco per liberare l’umanità dalle nuove armi. Infatti, il demonio, autore dell’ordigno, farà in modo che un negromante contemporaneo ad Ariosto ritrovi la «machina infernal» [7] e che tutti i Paesi del mondo ne imparino l’arte. L’attacco dell’autore in questo canto si fa ancora più severo, perché direttamente rivolto alla società del suo tempo: «come trovasti, o scelerata e brutta / invenzion, mai loco in uman core?» [8]. Ariosto paragona il «maladetto, abominoso ordigno» [9] al peccato originale, lo «scempio / che ci diè quando Eva ingannò col melo» [10]. In entrambi i casi, infatti, l’umano ha superato i limiti imposti alla sua conoscenza: il frutto ha fatto conoscere agli avi della Genesi il male, l’archibugio ha introdotto gli uomini alla morte per mezzo dell’artiglieria. La tecnica che emancipa l’uomo dallo status di animale, porta con sé il rischio di una conoscenza che egli non è sempre in grado di gestire e arginare. Una nuova scoperta può far fiorire una produzione, come radere al suolo una città: è la doppia faccia della tecnologia, che nutre l’energia pulita del nucleare e la bomba atomica su Hiroshima.  

Quel 6 agosto 1945 Claude Eatherly era sull’aereo di ricognizione che diede il via libera per lo sgancio dell’ordigno atomico sulla città giapponese, perché il cielo era terso e il clima favorevole. Circa settantamila persone morirono all’istante, altrettante in seguito per effetto delle radiazioni e ustioni. Alla fine della guerra, Eatherly tornò a casa celebrato da tutti come eroe, ma da quel momento non trovò più pace né modo di venire a capo della propria colpa. Cadde in depressione, tentò più volte il suicidio e si diede a piccoli reati, tutti per rendersi colpevole difronte alla società che continuava ad acclamarlo. La vicenda del pilota attira l’attenzione del filosofo Günther Anders, che inizierà un carteggio con lui [11].

La grande potenza statunitense, grazie a militari come Claude, ha posto fine alla devastazione della seconda guerra mondiale, radendo al suolo due intere città. La distruzione è stata tale, che Eatherly, così come qualsiasi altro uomo, è incapace anche solo di comprendere la colpa di aver ucciso duecentomila vite umane. «Per quanti sforzi disperati si facciano, dolore e pentimento restano inadeguati» scrive Anders nella prima lettera al pilota «l’inutilità dei suoi sforzi non è dunque colpa sua, Eatherly: ma è una conseguenza […] del fatto che siamo in grado di produrre più di quanto siamo in grado di immaginare; e che gli effetti provocati dagli attrezzi che costruiamo sono così enormi, che non siamo più attrezzati per concepirli» [12]. La mostruosità della bomba atomica sta nell’abisso tra il sentire e l’agire dell’uomo [13]. La tecnica con essa ha sorpassato non solo la conoscenza umana, ma persino la sua immaginazione. Quello che l’uomo è in grado di fabbricare causa conseguenze che i suoi sensi non possono comprendere: non è il solo frutto, ma è l’intero albero della conoscenza ad essere stato preso dall’Eden.

Il confine ora è stato varcato, ma non si può gettare via l’ordigno nel mare profondo come fece Orlando con l’archibugio: le bombe atomiche vanno adesso più che mai ricordate nella devastazione che hanno provocato e nella viltà della colpa che non si comprende, né si cancella. Il valoroso che ricorda evita che il vile ripeta l’errore, affinché non accada più che «trieman le mura, e sotto i piè il terreno» e che «il ciel ribomba al paventoso suono» [14].

Alice Dusso


[1] Ludovico Ariosto, Orlando Furioso, Ferrara 1516, canto IX, ottava 73, vv. 6-8.
[2] Ivi, ottava 75, vv. 1-4.
[3] Ivi, ottava 75, vv. 5-6.
[4] Ivi, ottava 89, vv. 3-4.
[5] Ivi, ottava 90, vv. 5-8.
[6] Ivi, canto XI, ottava 26, vv. 3-4.
[7] Ivi, ottava 23, v.1.
[8] Ivi, ottava 26, vv.1-2.
[9] Ivi, canto IX, ottava 91, v.1.
[10] Ivi, canto XI, ottava 22, vv. 5-6.
[11] cfr. Micaela Laini, Off-limits per la coscienza. Günther Anders e il caso Eatherly, in Günther Anders, L’ultima vittima di Hiroshima, Mimesis Edizioni, Milano Udine 2018.
[12] Günther Anders, L’ultima vittima di Hiroshima, Mimesis Edizioni, Milano Udine 2018.
[13] cfr. Micaela Laini, Off-limits per la coscienza. Günther Anders e il caso Eatherly.
[14] Ariosto, Orlando Furioso, canto IX, ottava 75, vv. 1-4.

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