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I serial killer: fra riflessione e morbosa mitizzazione

Fra i più influenti topoi della storia del cinema troviamo senza dubbio quello del serial killer. Ma non molti capolavori sono riusciti ad approfondire e mostrare tutte le svariate, oscure sfumature e diramazioni di un tema così complesso e terrificante.

Illustrazione di Anna Nicolini

Ammantato dal fascino oscuro del male di cui sono capaci gli esseri umani, la figura dello psicopatico ha da tempo dato l’opportunità a diversi artisti di aprire le porte a domande complesse e difficili da affrontare sotto molti punti di vista. Dalla più immediata questione del rapporto con la violenza, al bisogno di dominio per arrivare al rapporto, per quanto perverso, con la sessualità, con la famiglia e con la società. In tempi più recenti, volendo per un momento tornare ai temi più generali di questa rubrica, la figura del serial killer (o del criminale tout court) è andata non di rado a braccetto con il filone, forse particolarmente abusato, dell’antieroe.  Ciononostante, non sono naturalmente mancati esempi di un utilizzo più significativo della figura dell’assassino seriale, in opere che sono inevitabilmente diventate dei pilastri del genere horror/thriller e del sottogenere in questione.

M – Il mostro di Düsseldorf (Fritz Lang, 1932) è indubbiamente uno delle prime pietre miliari. La città tedesca è funestata dai terrificanti delitti di un misterioso assassino di bambine. Le autorità decidono di cercare il colpevole fra i delinquenti abituali. Questi ultimi, sicuri che nessuno di loro potrebbe essere responsabile di tali atrocità decidono di cercare il responsabile per conto proprio. In questo caso il racconto sull’assassino seriale è inserito in un contesto particolarmente ampio e sofisticato potendosi facilmente scorgere almeno due piani di lettura: uno socio-politico e uno introspettivo. Per quanto riguarda il primo, proprio la “caccia” all’assassino spinge verso una riflessione sul rapporto con i concetti di legge e giustizia e sullo spinoso tema della pena di morte affrontato in maniera straordinariamente progressista considerando il periodo di produzione del film. In questo contesto si coglie anche l’importanza dello stigma sociale rappresentato in modo quasi letterale proprio nello stratagemma adottato per identificare il mostro. Sul piano introspettivo, invece, si mostra un peculiare interesse per la psiche dell’assassino anche grazie all’incredibile interpretazione di Peter Lorre.

Un film che non potrebbe poi mancare in questo excursus è Psycho (Alfred Hitchcock, 1960). Il grande capolavoro del regista britannico costituisce uno degli esempi più importanti del climax tipico del thriller. Il film si caratterizza per l’introspezione psicoanalitica, la maestria registica nel sapere gestire l’elemento sorpresa e uno stile caratterizzato anche dall’utilizzo di piani e linee di ripresa del tutto innovativi. L’analisi psicologica non è rivolta solo al protagonista, ma probabilmente anche allo spettatore. In questo modo Psycho fa dell’elemento voyeurista uno degli temi ricorrenti del film. Psycho, notoriamente, si caratterizza infine anche per la sua anticonvenzionalità narrativa, con una protagonista uccisa e di fatto sostituita nel bel mezzo del film.

Anche se si potrebbe qui menzionare quasi tutta la produzione di Dario Argento, inevitabile è poi il riferimento a Profondo Rosso (1975). Il livello di innovazione si manifesta anche in questo caso sul versante del linguaggio cinematografico del film, ponendosi sulla scia del genere horror splatter e facendo quindi uso della violenza in modo ancora più cruento. Anche la narrazione presenta però aspetti di grande interesse, con il riferimento e al contempo lo pseudo ribaltamento di diversi elementi hitchcockiani: il colpevole è la madre, il trauma non è necessariamente l’origine della violenza ma solo del dolore e la soluzione del delitto è sempre legata alla casa dell’assassino, il che ricollega di nuovo l’origine di dolore e violenza all’archetipo familiare.

Con Assassini nati (Oliver Stone, 1994) il discorso torna in qualche modo politico. Nonostante la sperimentazione effettuata anche sul lato artistico, che vuole proprio trasmettere allo spettatore un senso di costante disagio da un lato, e una dimensione grottesca (soprattutto in merito ad autorità e istituzioni) dall’altro, l’elemento essenziale del film rimane il rapporto fra i media e la violenza e il perverso rapporto simbiotico che li alimenta. Un’importanza particolare è dedicata alla mitizzazione dei violenti da parte della massa, che idolatra gli spietati assassini per il loro agire al di fuori di ogni schema riuscendo a ottenere quello che vogliono senza doversi sottomettere a niente: un riflesso perfetto dell’individualismo estremo.

Anche in American psycho (Mary Horron, 2000) l’argomento viene spostato su un piano sociale. La violenza (reale o immaginata) del personaggio interpretato da Christian Bale è infatti legata alla dimensione collettiva, impregnata dalla superficialità e dall’ansia del successo imposti dall’iper-competitività neoliberista.

Un’attenzione particolare merita infine La casa di Jack (Lars Von Trier, 2018), un film la cui complessità concettuale viene eguagliata solo dalla crudezza della sua violenza. Riportando anche in questo caso il genere horror a una sua originale dimensione profondamente intellettuale, Lars Von Trier riesce anche ad assestare un significativo colpo non solo alla rappresentazione superficiale e quasi ludica della violenza che imperversa nel cinema contemporaneo ma anche alla fascinazione generata dalle declinazioni più misere e retoriche del cosiddetto “antieroe”.

Solidarizzare con il protagonista di fronte all’atrocità della sua violenza è impossibile, quasi come sopportare la visione dei suoi delitti la cui brutalità è insopportabile e del tutto repellente. In più, Von Trier riesce a trasformare la narrazione di un serial killer in una contorta e profonda riflessione sull’essenza dell’arte, sulla (probabile?) sopravvalutazione dell’artista (perennemente accostato alla figura del killer) e sulla sua ossessione per l’estetica e il dettaglio, origine del suo narcisismo e della compulsione verso la produzione, così come sull’esplorazione presentata come volontà di dominio oltre che di conoscenza e che conduce verso un esito inevitabilmente faustiano.

Anche in questo caso si potrebbero citare molti altri lavori che vedono lo spietato psicopatico come protagonista assoluto. Fra gli altri, naturalmente, Il silenzio degli innocenti (Jonathan Demme, 1991) e i suoi sequel.

Oggi il filone sta conoscendo una nuova fortuna, concentrando spesso l’attenzione su fatti realmente accaduti oltre che su personaggi di fantasia. Tuttavia, riallacciarsi a una tradizione pregressa, forse, potrebbe aiutare a individuare molti casi di superficiale ripetitività, se non addirittura di pericolosa relativizzazione, e a distinguere la profonda riflessione dalla mera morbosità.

Andrea Faraci

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