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Antonio Ligabue: la ferocia delle belve come metafora della vita

All’inizio del Novecento Antonio Ligabue, artista in grado di esprimere con le sue opere gli incubi della sua mente psicolabile, descrive un universo onirico in cui il mondo animale, con le sue bestie feroci e violente, allude al disagio della condizione umana e alla lotta per la sopravvivenza.  

Fotografia di Meagan Collins

Quando la stessa vita di un artista diventa simbolo di un percorso originale che rende quel soggetto peculiare nell’ambito della stessa storia dell’arte, allora accade che ci sia una perfetta corrispondenza tra l’uomo e la sua stessa produzione artistica e che l’arte funga da riscatto dell’autore interessato. Questo è accaduto ad Antonio Ligabue (Zurigo, 1899 – Gualtieri, 1965), un pittore e uno scultore del tutto sui generis. Resta orfano prestissimo e viene allevato prima dalla madre e poi da una coppia di genitori adottivi svizzeri fino a quando la madre sposa un italiano che lo riconosce, dandogli il suo cognome Laccabue. Con l’uomo, tuttavia, il pittore ebbe sempre un pessimo rapporto, tanto che, appena maggiorenne, chiese di modificare il suo stesso cognome cambiandolo in “Ligabue”. Personaggio difficile, incline ad atteggiamenti collerici, affetto da problemi mentali e da una psicosi, viene allontanato dal suo paese natale e mandato in Emilia nel paese del patrigno. Lì non riesce ad integrarsi con la popolazione locale, percependo lo scherno dei suoi simili che gli avevano affibbiato il soprannome di “Toni El matt”.

Una “follia” umana che riverbera nella sua attività. L’universo di Ligabue, infatti, ha caratteri onirici, in qualche modo selvaggi e primitivi, che lo hanno fatto considerare un pittore “naif”. Egli approda all’arte quasi per un’esigenza innata, senza studio e senza sovrastrutture: è il suo modo di esprimere la condizione di disagio e di sofferenza che lo vede distante dal mondo circostante, un mondo che lo respinge e lo costringe ad una pesante solitudine. Così, giunto in Italia, in un primo momento si interessa alla scultura, utilizzando l’argilla del letto dei fiumi e poi sceglie di dedicarsi con sempre maggiore impegno alla pittura.

La natura nei suoi quadri è, da un lato, origine delle cose, una natura “madre primigenia”; per altro verso, la natura è leopardianamente “matrigna” perché non rende poi quel che promette allor [1]. In questo senso l’universo pittorico di Ligabue è contemporaneamente un universo semplice, dai colori vividi, dalle forme assai misurate sul vero, eppure allo stesso tempo ha in sé dei contenuti simbolici e metaforici che non consentono una mera lettura di tipo estetico e figurativo dei soggetti dipinti.

In quest’ottica non è casuale la scelta di ritrarre in molti casi animali feroci, che lui copiava dai libri illustrati o dalle pubblicazioni dei musei di scienza e che probabilmente non aveva mai visto dal vero. Ligabue si immedesimava a tal punto in quegli animali da imitarne allo specchio i gesti, i versi, gli atteggiamenti. Ruggiva, si contorceva, ne simulava le movenze. Ne descriveva le lotte, come se la guerra fosse una condizione generale dell’esistenza: serpenti che accerchiano lupi avvolgendoli, leoni che aggrediscono gazzelle, tigri e uccelli rapaci, aquile predatrici di volpi, enormi ragni come la vedova nera che punge un leopardo.

La ferocia di quelle belve, così dettagliatamente dipinte fin nei minimi particolari, con unghie aguzze, bocche e fauci spalancate, atteggiamenti aggressivi nei riguardi degli altri esseri del mondo animale, allude alla ferocia della vita ed alla violenza della sorte che si accanisce sui deboli e che sembra conoscere soltanto la legge darwiniana del più forte. I soggetti sono spesso al centro dell’opera, ben valorizzati per sottolinearne l’evidenza al fine di svelarne emozioni e sentimenti, quasi come per gli esseri umani.

Ligabue dà naturalmente forma agli incubi che assalgono la sua mente, creando immagini che colpiscono lo spettatore, che gli ricordano come l’insidia ed il pericolo facciano parte dell’esperienza umana. Nei suoi famosi autoritratti lo stesso autore si ritrae solitamente come spaurito, con uno sguardo incerto e quasi spaventato, nonostante i colori e la vivacità delle sue opere, con una sensazione di presagio che incombe. Una sensazione che accompagna quel male di vivere descritto dai poeti nel secolo scorso: in questo senso l’arte di Ligabue è molto moderna e assai rappresentativa del Novecento.

Marta Casuccio


[1] Adattamento di un verso tratto da A Silvia di Giacomo Leopardi.

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