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La quinta stagione: la primavera attesa e l’inverno dell’uomo

Nel film La quinta stagione (2012) di Peter Brosens e Jessica Woodworth, allo scomparire della primavera emerge la brutalità dell’uomo. Al venir meno del favore della natura l’uomo si abbandona alla superstizione alla crudeltà, dimenticando ogni senso morale.

In un villaggio belga abitato da contadini e allevatori, vivono Pol, uno straniero da poco accampatosi con la sua roulotte insieme al figlio disabile Octave, e Thomas e Alice, due adolescenti innamorati. Annualmente gli abitanti del paesino organizzano un falò tradizionale per celebrare la fine dell’inverno e l’arrivo della bella stagione. All’ennesima celebrazione della festa, però, nessuno riesce ad appiccare il fuoco: da lì ha inizio un inverno incessante che porta la comunità alla rovina e alla disperazione. Dalla terra non cresce più niente, gli animali muoiono o non producono più latte fino ad essere sequestrati dall’esercito che teme un epidemia. Durante l’estenuante e deprimente attesa di una primavera che non arriva mai, gli abitanti provati dalla fame e dalla povertà, ritornano ad uno stato brutale, ostile e di disperazione. Un giovane del paese aggredisce Octave, rendendolo catatonico, il droghiere vende insetti e cibi scaduti, una donna fugge all’improvviso con un venditore di fiori di carta. La vita di tutti si abbrutisce a tal punto che, trascorso esattamente un anno dall’inizio della catastrofe, gli abitanti del paese decidono di celebrare un vero e proprio sacrificio umano, bruciando vivo Pol. Nel finale si mostra Thomas che fugge via dal paese portando con se il piccolo Octave.

Il film della coppia Brosens e Woodworth espone un approccio alla natura teso ad un controllo totale sulla terra e i suoi frutti. Il film si apre con l’immagine di un uomo, seduto al proprio tavolo da pranzo, che tenta di far cantare il proprio gallo senza successo. Il buffo contrasto fra l’uomo e l’animale viene riproposto con a momenti alterni durante il film con toni grotteschi e quasi comici. Questo fino a quando non si ritorna all’ambientazione originaria, la sala da pranzo, con l’uomo vestito con camicia e giacca seduto davanti al tavolo e su di esso, questa volta, il gallo decapitato e ancora grondante sangue. Di fronte all’improduttività della natura e all’impossibilità di esercitare un vero e proprio controllo, in base alle esigenze umane, l’uomo “civilizzato” reagisce con rabbia e violenza, dando sfogo al suo istinto più distruttivo.  

La reazione più istintiva dell’uomo, nonostante i progressi vantati, porta ben presto la comunità proprio a quanto il processo di civilizzazione ha sempre tentato di evitare, ossia ad un vero regresso antropologico. Il classico rito di passaggio da una stagione a un’altra ritorna alla sua violenta dimensione archetipica e, nello specifico, a quella sacrificale. Vengono quindi scelti i soggetti da consacrare alla divinità (sia anche intesa come la Natura stessa) per placarne l’ira con il sangue. I soggetti prescelti, nel solco delle tradizioni più antiche, non possono essere che lo straniero e chi è affetto da particolari malattie. Nel corso del film, il crudele risvolto non viene mai discusso dagli abitanti del villaggio. Lentamente e sommessamente si impone, attraverso piccoli e grandi atti di astio, discriminazione e aggressione, sempre accettati. Questo fino alla drammatica concretizzazione finale.

Un ruolo rilevante, nel film, è riservato anche ai personaggi più giovani e in particolare a Thomas e Alice. Entrambi sono coloro che più degli altri mostrano pietà e amicizia nei confronti di Pol e di suo figlio Octave. Thomas, regalando loro il cibo rimasto nell’emporio degli avidi genitori e portando infine con se Octave dopo il sacrificio rituale del padre. Alice cercando in tutti i modi di impedire il crimine commesso da tutti i suoi compaesani. Entrambi, nella loro gioventù, con la loro sensibilità e il loro stesso amore, sembrano simboleggiare proprio la primavera, la possibilità di rinascita, che la loro comunità tanto agogna. Eppure sono proprio fra coloro che più vengono osteggiati e mortificati. Alice, in particolare, arriva addirittura a prostituirsi con uomini molto più grandi per potere raccattare un po’ di cibo. Thomas, sempre avversato dai genitori, abbandona il villaggio insieme a Octave, come in una sorta di autoesilio.

In ultima analisi, il rapporto di dominio fra uomo e natura si mostra quasi del tutto opposto all’approccio descritto sopra. Si mostra in particolare come il vero progresso della comunità umana sia difatti relativo non tanto al grado di controllo che l’uomo è in grado di esercitare sulla natura circostante, ma dal favore delle circostanze naturali alla comunità umana. Proprio gli aspetti che più dovrebbero contraddistinguere la vita civilizzata vengono meno di fronte al bisogno e alla difficoltà. Il rifiuto di un nuovo ciclo naturale del tutto inaspettato, al sorgere di una quinta stagione, porta gli abitanti del villaggio alla superstizione e alla violenza, all’abbandono della razionalità e di qualsiasi senso morale. La ricerca di un potere sulla natura per rifuggire la primordialità conduce inevitabilmente proprio alla primordialità stessa. Ciò soprattutto lì dove il progresso e la “primavera” vengono concepiti esclusivamente come abbondanza.

Pare quindi, che di fronte alla miseria e all’ignoto di un inverno che sembra infinito, la vera priorità dell’uomo organizzato non sia effettivamente la fuga dalla desolazione ma la ricerca di un’esorcizzazione di ogni propria angoscia, desiderio di violenza e dominio ad ogni costo. Così nel finale si mostra, nell’immagine di un ragazzo e un bambino in lenta fuga, come molto più di una sola primavera si allontana attraverso una terra desolata.

Andrea Faraci

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