In Libera nos a Malo (1963) Luigi Meneghello racconta il paese d’origine facendo rivivere lo spirito di quel posto e della sua giovinezza.
Dall’Inghilterra, paese adottivo dove insegnava all’università di Reading, Meneghello crea un affresco del paese d’origine, Malo, collocato nell’alto vicentino. Il paese, raccontato con l’ironia e il sorriso eroicomico tipico dello scrittore, si trasfigura a tratti miticamente: per quanto si colga la drammaticità di una condizione di vita e di alcuni eventi di morte, l’autore evita così sino alla fine il patetismo e riesce a mantenere come dominante una tonalità comica e mitica.
I momenti più gioiosi si collocano proprio al centro del libro, protagonista la Compagnia degli amici, istituzione anti-istituzionale, laica e irridente attraverso la quale avviene l’educazione sessuale dei giovani amici, non soddisfatta dalla scuola e censurata dal catechismo. Ma di fatto una pulsione sessuale vitalistica compare sin dal primo capitolo, tramite il racconto dell’iniziazione dei bambini a quelle che vengono definite le “brutte cose”. Questa accompagna poi il lettore per un buon tratto del libro, fino a raggiungere la rappresentazione suprema nel personaggio di Cristoforo, “ciclope del sesso”, che corre nudo per il paese in preda al desiderio e viene mostrato, in modo comico-grottesco, «con le zucche del sesso appoggiate per terra tra le altre» [1] mentre spia eccitato Clelia, la donna di cui si è invaghito.
Il vitalismo dell’opera non si ferma però a questa tematica e passa soprattutto attraverso le tonalità comiche assunte dalla voce narrante, che racconta in prima persona del sé stesso bambino e poi adolescente: delle proprie avventure riguardo a sesso, lingua, religione e macchine e di un’esperienza di vita povera di mezzi, ma assai più piena e autentica.
Questo stile di vita è però destinato a scomparire: la modernità divora il paese come la Saùra (derivato dal nome della ditta svizzera di autovetture Saurer) divora, investendolo, il “putèlo dal monte”, la cui tragica storia chiude il capitolo 13. Ed ecco allora che la vitalità e il sorriso, che il narratore coraggiosamente difende dalla morte fino all’ultimo, non possono che cedere, infine vinti, forse. I ragazzi, non più ragazzi, si impossessano di un’ultima notte di bravate: una partita a calcetto, un giro per il paese strappando manifesti, un atto vandalico. Quest’ultimo però si presenta come triste reazione alla fine di ogni racconto: non c’è più niente da ricordare. Alla morte, al senso della vecchiaia non si lascia però mai davvero prevalere; ecco che il tono dell’ultima battuta si fa di nuovo comico-ironico e il senso della fine viene riassunto in un «Volta la carta la ze finia» [2].
Elena Sofia Ricci
[1] Luigi Meneghello, Libera nos a Malo, Milano, BUR, 2007, p. 180.
[2] Ivi, p. 251.