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Quando il respiro si fa arte: Eric Dolphy e il polistrumentismo

Fotografia di Filippo Ilderico

Fra tradizione e innovazione, ricerca e idee allucinate, Eric Dolphy – fautore del polistrumentismo nel jazz – si distingue per il suo sperimentalismo strumentale, ovvero la capacità di approcciarsi in modo differente ad alcuni strumenti a fiato, da lui utilizzati per incidere quelli che restano ancora oggi dei capolavori indiscussi.

Autunno, 1959. È questo l’anno in cui Eric Allan Dolphyimprovvisatore, compositore e polistrumentista di talento – decide di lasciare la west coast e il quintetto di Chico Hamilton, per seguire le orme del suo amico Charles Mingus e trasferirsi a New York.

Già conosciuto nell’ambiente musicale – apprezzato dai colleghi più intraprendenti e ostile ai più conservatori – lascerà ‘incisa’ la sua eredità musicale soprattutto in questi ultimi anni, tra l’America e l’Europa, prima di morire improvvisamente nel ‘64 per un diabete mal diagnosticato.

Nel corso della sua breve vita, Dolphy ha tuttavia partecipato ad incisioni discografiche imprescindibili per lo studio della storia del jazz (si pensi alle collaborazioni con C. Mingus, J. Coltrane, O. Coleman, M. Roach) fino a culminare in quello che viene definito il suo testamento artistico, l’album Out To Lunch! (1964) dove sprigiona tecniche espressive uniche ormai maturate e consolidate, al flauto, al sax contralto e al clarinetto basso.

Secondo il giornalista e critico musicale Claudio Sessa, ci sono tre ingredienti principali nella musica di Dolphy: il gusto per l’ironia e il grottesco, il lirismo profondo e viscerale e la solennità nei confronti dell’universo musicale (da quello classico al jazz, fino ad approdare allo studio delle musiche etniche, delle civiltà extraeuropee e, non ultima, lo studio dei suoni della natura).

La concezione musicale di Dolphy (così devoto alla musica da trasformare in note qualsiasi oggetto/emozione da lui esperita) non può sottrarsi all’analisi del suo diverso approccio nei confronti degli strumenti a fiato; ciò ha fatto di lui uno dei maestri più apprezzati per le future generazioni di musicisti [5]. Infatti, se una parte ha saputo rielaborare la tradizione parkeriana con la quale veniva suonato il sax contralto, dall’altra ha saputo conferire al flauto e al clarinetto basso nuovi ruoli all’interno della musica jazz, forzando i limiti tecnici degli strumenti e dedicandosi ad interessanti rimaneggiamenti estetici e anticonformistici del suono [6]. Quest’ultimo appare a tratti ansiogeno e allucinato, con frasi frastagliate e irregolari (spesso con il flauto); a tratti si ritrova invece una poetica blues, mentre al sax contralto sono affidate frasi allucinate di stampo parkeriano, spesso prive di lirismo, rielaborate secondo un proprio linguaggio.

Un disco di Dolphy in cui possiamo già rintracciare la sua poetica, maturata sempre più negli ultimi anni e testimoniata anche dai live a noi pervenuti, è il rivoluzionario Out There (1960). Si tratta di un album interessante sia per quanto concerne l’insolito organico utilizzato, di impronta cameristica, sia per il sound personalissimo conferito dalla riconoscibile ‘firma’ che Dolphy appone sui 4 strumenti a fiato, esplorandone in modo originale le caratteristiche timbriche.

Nell’interessante title trak (brano di apertura) Dolphy abbraccia il sax alto e, sulla base ritmica creata da contrabbasso (George Duvivier) e batteria (Roy Haynes), intrattiene un interessante dialogo con l’arco del violoncello di Ron Carter (celebre contrabbassista), utilizzando frasi veloci e nevrotiche. Serene è invece uno strampalato blues in minore, affidato questa volta al clarinetto basso che si destregga abilmente su una semplice ritmica sottostante, dialogando ancora con il violoncello. Segue poi un omaggio a Charles Mingus (The Baron) con il clarinetto basso, e la ripresa di un celebre brano dello stesso Mingus (Eclipse), con il clarinetto in Sib.

È la volta del flauto in 17 West e del successivo Sketch of Melba (di Randy Weston) dotato di un’incredibile delicatezza, in bilico tra la melodia struggente e le dissonanze create dallo strumento nella seconda parte, con note incandescenti che scivolano velocemente tra le dita del giovane artista.

Questo disco (che rappresenta solo uno dei tanti esempi di esplorazione di cui Dolphy era capace) si chiude con Feathers (di Hale Smith): un affresco sonoro che sembra quasi conferire maggior senso alla ‘strana’ copertina del disco (un lavoro di Richard “Prophet” Jennings): un’immagine quasi surrealista come d’altronde sembra essere l’intero disco di Dolphy, un genio musicale per molto tempo sottovalutato ma che, fino all’ultimo respiro, ha dimostrato quando la totale dedizione per la musica potesse arrivare a sorprendere ed emozionare gli orecchi di molti.

Eleonora Gioveni

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