Vai al contenuto

Dalla venere alla prostituta

Nel 1863, al Salon ufficiale di Parigi, trionfa La nascita di Venere (1863) di Alexandre Cabanel mentre la Colazione sull’erba (1863) di Manet viene rifiutata e definita “opera sconveniente”.

La prima tela viene acquistata dal re, la seconda è esposta al Salon des Refusés. Entrambe hanno come soggetto un nudo femminile ma riscuotono una reazione opposta da parte del pubblico e della società parigina di fine XIX secolo.

La sensualità della Venere di Cabanel, dai lunghi capelli scomposti, che inarca la schiena sulla schiuma del mare portandosi mollemente una mano sulla fronte, è accettata e resa lecita dallo stesso titolo dell’opera, che la vuole soggetto mitologico. La presenza dei cherubini e l’astratta collocazione spazio-temporale sono il mezzo che permette agli uomini del tempo di “scusare” la rappresentazione dell’eros nell’arte. Qui l’occhio non indugia sul seno di una donna, indugia sulla bellezza di Venere. L’eros è mediato, anche se da un filtro pressoché trasparente.

La pittura accademica di quegli anni, infatti, richiede agli artisti che vogliono esporre al Salon svariati requisiti di bellezza: correttezza del disegno, finitezza della pittura, grandi dimensioni delle tele per la trattazione di mito e storia, piccole dimensioni per chi azzarda la rappresentazione del quotidiano. La possibilità di esporre è fondamentale in quanto tramite per ottenere commissioni e premi. Non solo, il Salon è anche scenario del dibattito critico e luogo per imparare a dipingere secondo una “corretta” educazione al gusto e alla bellezza. Canoni essi stessi subordinati ai criteri di una specifica giuria di stato, che tende ad omologare lo stile e i caratteri delle opere. Le mostre private non esistono e la prima frattura con l’arte accademica è introdotta proprio in questi anni dalla Colazione sull’erba di Manet.

L’opera è esposta al Salon des Refusés nel 1863 e, nonostante rielabori materiali tradizionali – si vedano Il concerto Campestre (Tiziano,1509) e Il Giudizio di Paride (Raimondi, 1515-1516) – il suo nudo è bollato come scandaloso. Le critiche, leggibili in un saggio di Zola che le riporta per confutarle a difesa dell’artista, si scagliano sia contro la tecnica sia contro il contenuto del quadro: il linguaggio è realistico, la pennellata imprecisa e soprattutto il nudo non è idealizzato in una cornice mitologica.

A posare sono infatti personaggi reali e riconoscibili: i fratelli e il cognato del pittore siedono in un boschetto lungo la Senna, vestiti secondo la moda del tempo, e discorrono con una donna, nuda. Il nudo è quello della prostituta Victorine Meurent, la modella preferita di Manet. Nessun elemento cerca di celarne l’identità. Niente impedisce allo spettatore di cogliere nei soggetti un riferimento alla vita quotidiana e alle abitudini del tempo.

La sensualità in Colazione sull’erba è forte per il semplice fatto che è reale, diretta, naturale. La posa della donna non è intenzionalmente seducente come quella della Venere di Cabanel, eppure è altrettanto, se non di più, efficace perché trattata liberamente ed esplicitamente.

Due anni dopo Manet, grazie alle pressioni di Baudelaire, riesce ad esporre al Salon ufficiale l’Olympia (1863). Nuove ed uguali sono le critiche al soggetto femminile, ancora una volta nudo.

Nessuna allegoria. La donna è una cortigiana-prostituta (come dimostrano il nastro di velluto al collo, il fiocco nei capelli e i braccialetti) con un volto reale e riconoscibile: la modella è la stessa del quadro precedente, Victorine Meurent. Ma di più: il nudo è dichiarato brutto rispetto ai canoni di bellezza, con le gambe corte e il seno piccolo. Il critico Jules Claretie scrive: «Cos’è mai questa odalisca dal ventre giallo, ignobile modello raccattato non so dove, che vorrebbe rappresentare Olympia?».

Il fisico non è infatti idealizzato ma realistico e – sempre stando alle parole dalla critica – la donna ha «una posa e uno sguardo provocanti» che la fanno identificare con una prostituta. Lucidamente ironica in proposito l’affermazione di Zola: «Assomiglia a molte signore che conoscete». La prostituzione era tra l’altro diventata uno dei temi più sentiti nella Francia di quegli anni, basti pensare a Nanà (1880) dello stesso Zola o ai lavori di de Sade.

Non manca, anche in questo caso, il richiamo visivo alla tradizione, che rende ancora più eclatante lo scandalo. Immediato agli occhi dello spettatore dell’epoca è infatti il rimando alla Venere di Urbino (Tiziano, 1538), la cui posa dolce e casta con la mano poggiata delicatamente sul pube non è più visibile nell’Olympia. Amédée Cantaloube scrive così sul Grand Journal: «This Olympia is a sort of female gorilla, a grotesque in India rubber outlined in black, apes on a bed, in a state of complete nudity, the horizontal attitude of Titian’s Venus: the right arm rests on the body in the same fashion, except for the hand, which is flexed in a sort of shameless contraction».

La rielaborazione operata da Manet è ancora più profonda: al cagnolino presente nel quadro di Tiziano (simbolo di fedeltà familiare) viene sostituito un gatto nero dal pelo irto, segno di malaugurio e allusione erotica, apprezzato da Zola perché «ha fatto divertire il pubblico». Le due ancelle di Tiziano si trasformano in una schiava di colore con un mazzo di fiori in mano. E l’accostamento nudo-serva era nell’Ottocento strategia pittorica per alludere alla prostituzione. Quanto al mazzo di fiori, esso potrebbe essere un’ulteriore spia dell’identità della ragazza, in quanto omaggio di un cliente nascosto dietro la tenda.

Il titolo Olympia viene scelto da Manet solo quindici mesi dopo la realizzazione. Il pittore voleva alludere al poemetto La fanciulla delle isole di Astruc, amico dell’artista nonché uno dei suoi primi sostenitori. Questo riferimento diventa l’ennesimo spunto di attacco per i detrattori dell’opera: Chesneau afferma che «l’impotenza dell’esecuzione annulla la pretesa di dipingere l’augusta fanciulla di Astruc».

Dopo la realizzazione dell’Olympia Manet diventa pittore sgradito al Salon e non potrà parteciparvi mai più. Il quadro rimarrà invenduto fino alla sua morte ma, come avrebbe poi commentato il critico Théodore Duret, riferendosi soprattutto alla Colazione sull’erba, «Manet diventa di colpo il pittore di cui si parla maggiormente a Parigi!».

L’Olympia acquisterà infatti una grandissima fortuna visiva, diventando un’icona fondamentale nel mondo dell’arte: basti pensare a Una moderna Olympia (1874) di Cézanne.

Anna Nicolini

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.