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Una prigione di segni

Fotografia di Luca Torriani
Fotografia di Luca Torriani

Fuggire da una prigione in crescita, nell’accumulo di tentativi falliti e possibilità da scartare: questo l’obiettivo che si prefigge Edmond Dantès nel racconto Il Conte di Montecristo (in Ti con Zero, Einaudi, 1967) di Italo Calvino.

Il racconto si concentra su Dantès e sull’abate Faria, imprigionati nella fortezza di If. Intorno a quest’attimo di tempo, isolato in un eterno presente di prigionia, i due cercano, con metodi diversi, di trovare una falla nella struttura della fortezza.

L’abate Faria procede a tentativi, secondo un meccanismo di prove e tentativi, correzione della rotta e nuovi tentativi. Pensa, come dice il Dantès protagonista, che una volta scartati tutti gli errori, non potrà che incappare nella via d’uscita. Il protagonista adopera invece un sistema opposto, utilizzando gli errori dell’altro per progettare la propria fuga. Cerca di progettare una costruzione meccanica perfetta, in cui tutte le parti, ogni bastione, ogni muro, ogni cella deve intersecarsi in maniera equilibrata al tutto: se questa struttura mentale della fortezza di If sarà ancor più perfetta di quella reale, allora la fuga sarà possibile.

Nel frattempo i personaggi si trovano però incastonati nella fortezza, in una situazione paradossale. La fortezza sembra crescere loro intorno, cosicché per fuggire le nozioni di tempo e spazio devono essere ripensate.

Tra i continui fallimenti di Faria e le riflessioni di Edmond Dantès il lettore viene coinvolto in un labirinto di immagini: Montecristo-If e Elba-Sant’Elena, Dantès, Faria e Napoleone, mappe di luoghi diversi che si sovrappongono. Il lettore viene proiettato in una sovrapposizione di segni, sbucando ad un certo punto persino sulla scrivania di Alexandre Dumas, che, quasi al termine della scrittura del suo romanzo, deve riprendere e sistemare proprio la parte della fuga dalla fortezza di If, scegliendo una delle tante versioni possibili accumulatesi sulla sua scrivania.

Un accumulo di segni – dal punto di vista postmoderno quelli del passato – tramutatosi in prigione: essi hanno sostituito il reale ma non si riesce più a comprenderne il significato. Provocano così un senso di smarrimento, tramutandosi in prigione. Un senso di prigionia dovuto dunque a un’impossibilità di tradurre tali segni.

A ciò Calvino riconnette la necessità di non ricorrere ad un’interpretazione univoca. Il racconto intesse una serie di strade, di percorsi che si diramano, divergendo: cristallizzate nel presente, in un attimo precedente alla scelta, nessuna viene intrapresa da Dantés-Dumas, ognuna di esse è ancora possibile.

Si apre così una questione propria, in realtà, di ogni testo letterario, un problema particolarmente caro ai teorici di traduzione: per ogni aspetto su cui si sceglie di concentrare l’attenzione in un’opera, si volterà le spalle, come dice Valerio Magrelli, a molti altri. L’interpretazione, che è poi traduzione dei segni, procede dunque secondo una meccanica dell’esclusione. Per ogni aspetto considerato, se ne escludono altri: ognuno di essi potrebbe portare a un’interpretazione parzialmente diversa, seppur parzialmente sovrapponibile, a una traduzione parzialmente diversa seppur parzialmente sovrapponibile.

Elena Sofia Ricci

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