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L’Ofelia di Millais: raccontano i fiori

Fotografia di Filippo Ilderico

John Everett Millais (1829-96), uno dei sette ragazzoni [1] che nel 1848 fondano a Londra la P.R.B. (Confraternita dei Preraffaelliti), di lì a breve dipingerà un quadro destinato a divenire il simbolo stesso del gruppo: l’Ofelia (1851-52), personaggio di Shakespeare, che annega insieme ai suoi fiori. «E giù caddero nel piangente ruscello / i suoi trofei d’erba e lei stessa» [2].

Millais è il primo a vedere nei versi shakespeariani la follia, insieme delicata e fatale, di Ofelia, e la sua interpretazione rimarrà un fondamentale punto di riferimento non solo per artisti successivi (come lo scultore Arturo Martini) ma anche – e soprattutto – per i suoi contemporanei, ipnotizzati dalle potenzialità estetiche di un quadro che ritrae la morte incantando. John William Waterhouse (pittore), Arthur Rimbaud (poeta), Dante Gabriele Rossetti (pittore), Arthur Hughes (pittore), Sarah Bernhardt (scultrice) sono solo alcuni degli artisti che operano vicino a Millais e che dopo aver visto l’Ofelia si misurano con l’immagine della giovane che ha perso la testa e parla coi fiori.

Nell’Amleto ci sono due tipi di follia: quella di Amleto e quella di Ofelia.
Lui, però, finge: Amleto non è veramente impazzito ma così deve apparire agli occhi dello zio Claudio; ha visto un fantasma e nonostante questo riesce a non perdere completamente il senno e a seguire una via razionale. Amleto deve mantenere la lucidità per vendicarsi del padre. Questo il peso che deve portare, condensato nel celebre interrogativo “essere o non essere”.

La follia di Ofelia, invece, non è simulata; Ofelia è – o meglio diventa – realmente pazza. Innamorata di Amleto, la giovane figlia di Polonio impazzisce proprio per il principe. Il suo non è semplice “mal d’amore”, come voleva la psichiatria ottocentesca: la donna, infatti, è forse l’unico personaggio di tutto il dramma che crede veramente alla falsa pazzia di Amleto e ci crede a tal punto che perde la testa. Ora Ofelia è partecipe della follia che affligge l’uomo che ama; ora lo può finalmente capire e da lui essere amata. Amleto, però, non è pazzo e la rifiuta.

L’aspetto di questa follia che affascina maggiormente Millais è la sua insostenibile leggerezza, che si riflette nei fiori: Ofelia non parla più il linguaggio umano ma quello dei fiori. Ofelia passa dall’altra parte ancora prima di morire: vede il mondo, diversamente da Amleto, nella sua irrazionalità e riesce ad accettarne le contraddizioni. Si esprime per simboli e questi simboli – che nessun altro comprende – sono i fiori che ella intreccia, sola, cantando confusamente lungo la riva del fiume.

La follia si tramuta quindi in disperazione e, caduta nell’acqua gelida, la giovane continua a cantare senza muoversi; le sue vesti si gonfiano d’acqua finché da leggere si fanno pesanti e insostenibili e la portano a fondo con loro: «le sue vesti si allargarono e per un poco / la sostennero come una sirena, e lei / cantava brani di vecchie melodie / come una inconsapevole del proprio rischio […] Le sue vesti / pesanti per il bere / trascinarono la sventurata dai suoi canti melodiosi / a una fangosa morte» [3].

Il momento che Millais sceglie di raffigurare è l’istante in cui Ofelia, leggera, rimane sospesa sulla superficie dell’acqua come una sirena; il polso sinistro galleggia ormai abbandonato, gli occhi azzurri sono ancora aperti e così anche la bocca, che spira l’ultimo respiro; le vesti si spandono divenendo un tutt’uno con le acque e le alghe dal verde brillante; tutt’attorno fluttuano i lunghi capelli.

Il pallido viso è quello di Elizabeth Siddal, modella e amante di Dante Gabriel Rossetti, amico dell’artista e a sua volta pittore preraffaellita. Millais, nel suo appartamento a Grower Street, fa posare Lizzie per ore in una vasca di acqua riscaldata da lampade ad olio. A un certo punto, però, le lampade smettono di funzionare e si dice che la donna abbia continuato – impassibile proprio come Ofelia – a posare nell’acqua che diventava fredda. Dopo l’episodio Lizzie si ammala di bronchite e Millais stesso sarà costretto a pagare un risarcimento al padre [4].

A rendere così celebre il quadro si aggiunge, infine, l’estrema precisione con cui l’artista ritrae ogni singolo fiore. Millais ha capito l’importanza cruciale dei fiori per Ofelia: essi sono diventati il suo disperato linguaggio, l’unico modo che ha per esprimersi.

Se lo stesso Shakespeare (in linea con le credenze dell’epoca) indica il significato simbolico di alcuni fiori, Millais ancora di più mira a metterne in luce la valenza irrazionale anziché naturalistica. Quella del pittore non è scrupolosità mimetica ma l’indagine di una lingua incomprensibile eppure ordinatissima, in cui ogni virgola ha un suo preciso significato.
Nell’acqua, infatti, galleggiano specie che non fioriscono tutte nello stesso periodo dell’anno e che tuttavia raccontano, come le lettere di un alfabeto, una verità incompresa.

Le rose parlano della bellezza e dell’amore a cui, però, si unisce il dolore, simboleggiato dalle ortiche, dal salice piangente e dall’adonide; le margherite sono innocenza; le violette, che le girano attorno al collo, castità. Il papavero – fiore con il cui veleno la stessa Elizabeth si toglierà la vita – è simbolo di morte e il nontiscordardimé invita lo spettatore a non dimenticare.

Anna Nicolini


[1] L. Vercesi, Il naso di Dante, Neri Pozza, 2018.
[2] W. Shakespeare, Amleto, Atto IV, scena VII, trad. it. di A. Lombardo, Feltrinelli Editore, 1995.  
[3] W. Shakespeare, Amleto, Atto IV, scena VII, trad. it. di A. Lombardo, Feltrinelli Editore, 1995.
[4] M. T. Benedetti, I Preraffaelliti, Art e Dossier, Giunti Editore, 1999

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