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Cesare Pavese nel ritratto di Natalia Ginzburg: un eterno ragazzo

In Ritratto d’un amico, Natalia Ginzburg consegna alla letteratura il suo ricordo di Cesare Pavese, unanimemente ritenuta la più fedele e toccante delle testimonianze sullo scrittore cui «restava da conquistare la realtà quotidiana».[1]

Fotografia di Guido Riunno

In un’intervista apparsa il 20 ottobre del 1962 su Paese Sera, Natalia Ginzburg anticipa la forma del suo libro in uscita, dicendo che «sarà un volume che riunirà tutti i miei scritti sparsi. Alcuni sono saggi vagamente morali, altri sono ritratti, memorie». Si tratta de Le piccole virtù, pubblicato quello stesso anno nella collana Saggi di Einaudi.

Ritratto d’un amico – «certo la più bella cosa che sia stata scritta sull’uomo Cesare Pavese» -[2] è collocato da Ginzburg nella Parte prima del libro, dove sono condensati gli scritti di memoria. La prosa saggistica di Ginzburg, non diversamente da quanto accade nei suoi romanzi e racconti, è di un vigore asciutto. Quello di una scrittrice che tende l’emotività come una freccia sull’arco, preferendo allo scocco una prolungata vibrazione.

Il ricordo di Pavese si apre su Torino e non a caso: Torino è la città che Pavese ha misurato col suo passo lungo e nervoso, l’agglomerato di vie e caffè cantati nelle poesie e nei romanzi. Tra l’autore e il capoluogo piemontese c’è un’intesa di nebbia, operosità e malinconia.

Negli anni del mito, Ginzburg desacralizza. Evita il pericolo – allora corrente – di restituire alla storia della letteratura un santino invece di una vita. È un’operazione necessaria nel periodo in cui si inizia a fare i conti con l’eredità pavesiana. Un atto di amore, nostalgia e testimonianza che solo un’amicizia profonda e antica avrebbe potuto dettare. Pavese era l’uomo la cui sobrietà, modestia e gentilezza intimorivano, ma anche il bizzoso e lunatico “adolescente” dalle maniere ruvide e dagli inganni facili.

I gesti e gli sguardi di Pavese sono ricostruiti con vividezza cinematografica, tanto da dare l’illusione di poterlo osservare mentre riempie la pipa di tabacco o si spettina i capelli. Intenso e sempre scisso tra una vita regolare e la lontananza dalle esperienze comuni, asfaltava in modo contorto la via per raggiungere anche le cose più semplici. Era il primo avversario di sé stesso, a tal punto dentro la vita da non riuscire a venirne a capo. «Si era creato, con gli anni, un sistema di pensieri e principi così aggrovigliato e inesorabile, da vietargli l’attuazione della realtà più semplice» [3]. Una mente descritta come una selva senza uscita e negli occhi «una tristezza come di ragazzo» [4].

Il successo del suo lavoro alimentava la consapevolezza di ricevere ciò che si era sempre aspettato. La conferma di una certa superbia ma anche del sentimento di amarezza nei confronti del reale, incapace di destare stupore. Per Pavese, la conquista della realtà quotidiana era al contempo il più acuto dei desideri e la più grande delle delusioni.

Ginzburg chiude il ritratto pavesiano in una ringkomposition con variatio. Di nuovo Torino, ma questa volta in estate. Pavese si uccide ad agosto in una città calda e abbandonata, dove a riempire le strade non resta che la polvere.

Due poesie dello scrittore piemontese animano lo spazio serrato dell’epilogo. Nell’ultima, l’eco dell’amico perduto si espande sulla proda della collina dove Ginzburg e gli altri si sono recati in gita e in memoria dei luoghi da lui amati. «[…] Come un mare notturno è quest’ombra vaga / Di ansie e brividi antichi, che il cielo sfiora / E ogni sera ritorna. Le voci morte / Assomigliano al frangersi di quel mare» [5].

Giulia Annecca


[1] Natalia Ginzburg, Le piccole virtù, Torino, Einaudi, 1962, XI ed., pag. 20
[2] Italo Calvino, risvolto di copertina a Natalia Ginzburg, Le piccole virtù, Torino, Einaudi, 1962
[3] Natalia Ginzburg, Le piccole virtù, Torino, Einaudi, 1962, XI ed., pag. 19
[4] Ivi, pag. 17
[5] Ivi, pag. 21

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