Persepolis, graphic novel dell’autrice iraniana Marijane Satrapi, racconta, ripercorrendo la vita dell’autrice, i rivolgimenti che hanno interessato il paese tra il 1980 e il 1994.
Partendo dai ricordi dei primi anni di vita a Teheran Satrapi ricostruisce le vicissitudini della propria infanzia e adolescenza tra Iran e Austria, concludendo l’opera con la partenza definitiva della sé stessa personaggio per Parigi.
La storia prende avvio, significativamente, dal 1980, l’anno successivo alla rivoluzione islamica. La prima pagina presenta un’immagine dell’autrice bambina con il velo nel 1980, per poi tornare indietro al 1979 e mostrare l’introduzione nelle scuole del velo stesso – che Satrapi chiama “il foulard” – l’anno successivo come diretta conseguenza di quella «che poi hanno chiamato “la rivoluzione islamica“» [1]. In seguito, dopo aver introdotto il tema delle manifestazioni sull’uso del velo che imperversavano nel paese, la narrazione fa un ulteriore salto nel passato fino alla nascita di Marijane, per raccontare la convinzione dell’autrice da piccola di essere l’ultimo dei profeti. Si ritorna quindi alla rivoluzione islamica, ritratta non solo secondo il punto di vista “infantile” della giovanissima Marijane, ma anche attraverso le spiegazioni del padre, che rende comprensibili alla bambina gli eventi di quegli anni. Anche lə lettorə viene così messə al corrente della storia recente del Paese, mentre il padre ricostruisce per Marijane le cause che hanno portato alla rivoluzione.
I genitori dell’autrice, persone progressiste che crescono la figlia secondo i principi della libertà, avevano partecipato alle rischiose manifestazioni contro lo scià che precedettero la rivoluzione del 1979. Il loro intento non era tuttavia l’instaurazione di uno stato islamico, evento che accolgono infatti con sorpresa e preoccupazione, come peraltro il resto della famiglia e parte degli amici, che lasciano il Paese.
Solo lo zio Anoush, eroe rivoluzionario che era stato arrestato sotto il regime dello scià per aver collaborato alla costruzione della Repubblica indipendente dell’Azerbaïdjan, sembra non allarmarsi: «Non preoccuparti. Tutto s’aggiusterà», dice al fratello, «[i]n un Paese per metà analfabeta non si può radunare la gente intorno a Marx. La sola cosa che possa unire è il nazionalismo e la fede religiosa… Ma i religiosi non hanno la capacità di governare. Ritorneranno alle loro moschee e il proletariato trionferà!!! Deve per forza essere così!!! Del resto è ciò che sostiene Lenin nel suo libro “Lo stato e la rivoluzione”». [2] Anche quando Mohsen – un rivoluzionario comunista, amico della famiglia – viene trovato assassinato nella vasca da bagno, Anoush rimane positivo. Il suo ottimismo comincia tuttavia a vacillare in seguito al tentato omicidio anche dell’altro amico rivoluzionario della famiglia, Siamak, che però riesce a fuggire insieme alla famiglia. Poco dopo zio Anoush viene arrestato per essere poi giustiziato come spia russa. L’arresto e la morte aspettano del resto tutti i rivoluzionari, già perseguitati sotto lo scià, che non riescono a lasciare il Paese in tempo.
In seguito, l’autrice ripercorre alcuni cambiamenti nella sua vita e in quella di tuttə lə altrə dopo la rivoluzione islamica: la chiusura temporanea delle università (ufficialmente per non «educare futuri imperialisti» [3]), la già citata introduzione del velo, il divieto per gli uomini di indossare la cravatta, simbolo occidentale, e le camicie a maniche corte poiché «se i capelli delle donne eccitavano gli uomini, per contro, le braccia nude degli uomini, eccitavano le donne» [4], la proibizione dell’alcool, lo spionaggio tra vicini.
A causa delle restrizioni alle libertà l’autrice dovrà lasciare il Paese ed emigrare in Austria: la parte successiva della sua storia è infatti ambientata a Vienna. Nel frattempo, già prima della sua partenza, è scoppiata la guerra con l’Iraq.
Nei quattro volumi che compongono l’opera, la rivoluzione islamica non è però l’unica rappresentata: vi è anche, infatti, quella che potrebbe essere definita una “controrivoluzione che passa per le piccole cose”. Dopo aver soggiornato a Vienna per quattro anni, tra il 1984 e il 1988, Marijane torna infatti a Teheran; ed è qui che la protagonista intraprende man mano una lotta, una rivoluzione discreta che utilizza come mezzo di protesta quelle piccole cose che avrebbero tuttavia potuto portare all’arresto, o comunque causare problemi: «mostrare il polso, ridere forte, avere un walkman» [5], truccarsi. È una sorta di lotta dei costumi, l’unica possibile in quel momento. Ma nel raccontarla l’autrice mette in evidenza un fatto importante, che accomuna molte dittature:
«Il regime aveva capito che una persona che usciva di casa domandandosi: “Avrò i pantaloni abbastanza lunghi? Sarà a posto il mio foulard? Si noterà che sono un po’ truccata? Mi frusteranno?” non si chiedeva più: “Dove è andata a finire la mia libertà di pensiero? Potrò mai esprimermi liberamente? Vale la pena continuare a vivere? Cosa fanno ai prigionieri politici?”.
È naturale! Quando si ha paura, si perde la nozione dell’analisi e della riflessione. La paura paralizza. Del resto il terrore è sempre stato il motore di tutte le dittature. Truccarsi o andare in giro con un ciuffo di fuori divennero ovviamente forme di ribellione» [6].
In un sistema dittatoriale la comprensione di ciò è già un passo importante, in attesa del momento in cui la rivoluzione vera e propria sarà, infine, possibile.
Elena Sofia Ricci
[1] Marijane Satrapi, Persepolis, Milano, Sperling & Kupfer Editori, p. 3.
[2] Ivi, p. 62.
[3] Ivi, p. 72.
[4] Ivi, p. 75.
[5] Ivi, p. 61.
[6] Ibidem.