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“Amatka”: plasmare il mondo attraverso la parola

Amatka (2012), sci-fi distopico di Karin Tidbeck, porta lə lettorə in un mondo che si regge quasi interamente sulla parola e in cui la parola stessa può assumere caratteri sovversivi.

Edificio grigio con linee colorate che lo avvolgono (illustrazione per articolo su "Amatka" di Karin Tidbeck)
Disegno di Elena Sofia Ricci

Dopo che l’umanità ha dovuto lasciare la Terra, di cui nessuno ha ricordi precisi ma verso la quale i personaggi nutrono un’indefinita nostalgia, alcune persone, definite i Pionieri, hanno colonizzato un altro mondo in cui, ad eccezione degli edifici governativi della comune e di alcuni fogli di “carta buona”, tutto è plasmato a partire da una poltiglia, trovata nel nuovo mondo, in grado di modificarsi e assumere qualunque sembianza per effetto della parola.

La natura stessa di questa materia obbliga però le persone a etichettare ogni oggetto e a ripeterne frequentemente il nome in modo da evitare che essa torni allo stato originario, che pare inizialmente avere un carattere non solo nocivo, ma in qualche modo infettivo, poiché lo stato-poltiglia tende a diffondersi da un oggetto all’altro (e forse alle persone stesse vista la paura iniziale della protagonista, che scaglia via lo stivale con cui aveva accidentalmente calpestato la poltiglia).

Per evitare la distruzione di questo mondo, si legge sulla quarta di copertina dell’edizione italiana, «un comitato centrale veglia severamente sulle parole pronunciate dagli abitanti delle colonie, perché la vita in un mondo minacciato dalla disgregazione richiede volontà e disciplina» [1]. Eppure, man mano che la lettura procede comincia a insinuarsi il dubbio che un’altra strada sia percorribile, che costruire un mondo diverso – dove, come dice il bibliotecario Evgen, si possa vivere e non solo sopravvivere – sia possibile.

Attorno alla protagonista, Vanja Essre Due di Brilars, cominciano infatti a emergere una serie di personaggi sovversivi, a partire dalla poetessa Anna di Berols, ufficialmente morta nell’incendio di una delle serre in cui vengono coltivati i funghi nella colonia di Amatka, ma in realtà fuggita insieme ad altre persone per formare una colonia indipendente. L’intermediario che fa conoscere a Vanja le opere di Anna di Berols e la sua storia è il bibliotecario Evgen, con cui Vanja comincia a discutere in segreto sulla possibilità di cambiare le cose, di trovare la colonia di Anna e con essa libertà e felicità.

Nel nuovo mondo, di cui la colonia di Amatka fa parte, fare certi discorsi è però altamente rischioso. In una realtà in cui tutto è plasmato dalla parola, questa assume infatti un potenziale altamente sovversivo, e, in tutta risposta, la repressione del comitato finisce per colpire chiunque parli «in modo inappropriato» [2]. Così era stato per Lars, il padre della protagonista, e così sarà infine per Evgen e Vanja stessa. Ad attenderli è ciò che viene definito “la procedura”: «Non esisteva la pena di morte nelle colonie. Tuttavia, ai dissidenti doveva essere impedito di mettere in pericolo la comunità. La procedura che distruggeva il centro del linguaggio del cervello era una soluzione elegante» [3].

Due modi di pensare e di usare la parola si scontrano dunque in Amatka: quello portato avanti dal governo del comitato e della comune (nella descrizione dei quali si possono notare alcuni riferimenti al comunismo storico) e adottato dalla maggior parte delle persone (per scelta o per paura e sottomissione), tra cui Nina, compagna della protagonista, e quello di Vanja, Anna, Evgen e Ulla, medico in pensione che abita nella stessa casa di Vanja.

Chi la pensa nel primo modo sostiene di agire nell’interesse di tutta la comunità. Ciò è reso particolarmente chiaro dalle parole di un portavoce della comune, che ha un colloquio con Vanja tra il suo arresto e la procedura: «Non sei la prima a fomentare la ribellione. […] I potenti, siamo tiranni, vero? È oppressione, giusto? […] Cosa intendi con “voi”, Vanja? Il comitato è eletto dal popolo. Il comitato è il popolo. Possiamo essere deposti in qualunque momento. Chiunque può candidarsi alle elezioni. […] Abbiamo tutti convenuto su una serie di regole che sono necessarie alla sopravvivenza, ma alcune persone proprio non ce la fanno a seguirle. Stai insorgendo contro un sistema che credi che protegga il gruppo ma danneggi te. Così hai deciso di rovesciare il sistema e lasciare che il gruppo perisse. Ho capito bene?» [4].

Chi invece, come Vanja, non è d’accordo con questo sistema ritiene che una non-vita infelice e senza libertà non valga la pena di essere vissuta, che ci siano altre possibilità esplorabili attraverso la parola e che la poltiglia di cui tutto è fatto non sia qualcosa da temere, ma qualcosa che è possibile modificare, plasmare per creare un nuovo mondo. Di questo nuovo mondo effettivamente si ha uno scorcio alla fine del romanzo, quando insieme ad Ulla, scappata in precedenza dalla colonia, arrivano ad Amatka, che ormai sta cadendo a pezzi a causa della disgregazione della materia, Anna di Berols e le altre persone fuggite insieme a lei. Non più del tutto umani per essersi uniti al mondo, divenendone parte, essi divengono i portavoce di una sorta di panteismo che trascende l’umano, di una post-umanità più gentile in cui nessunə viene lasciatə indietro [5] e in cui, lungi dal voler mantenere lo stato delle cose, si guarda a ciò potrà essere. Di questa post-umanità in connessione col mondo Vanja, a causa della perdita del linguaggio da cui la realtà stessa è costruita, non potrà fare parte. Non ne sarà tuttavia neanche del tutto esclusa: resterà «[u]n’osservatrice, una spettatrice, ma amata». [6]

Elena Sofia Ricci


[1] Karin Tidbeck, Amatka, Safarà editore, 2018, quarta di copertina.
[2] Ivi, p. 58.
[3] Ibidem.
[4] Ivi, p. 213.
[5] «Avrebbe camminato con loro finché avrebbe potuto, e quando non sarebbe pià riustica a camminare, l’avrebbero portata» (Karin Tidbeck, Amatka, Safarà editore, 2018, p. 226).
[6] Karin Tidbeck, Amatka, Safarà editore, 2018, p. 225.

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