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Il Cantu e Cuntu di Rosa Balistreri: sul bene e sul male della sua terra

Rosa Balistreri, cantautrice e cantastorie siciliana, si è contraddistinta per essere riuscita a narrare non soltanto le tradizioni e l’amore per la sua terra ma per averne contestato anche gli aspetti negativi, mantenendo un atteggiamento olistico e denunciando con coraggio la corruzione politica e le ingiustizie sociali del suo tempo senza tuttavia venir meno ad un forte senso di appartenenza.

La volontà di cantare la bellezza e, allo stesso tempo, le crudeltà della propria terra, con schiettezza e trasparenza, non è una qualità che si ritrova in molti artisti, specie se si parla della Sicilia degli anni ‘60 e ‘70. Rosa Balistreri, icona indiscussa del folk siciliano, si è definita un’attivista che fa comizi con una chitarra in mano, portando la sua parola tra la gente.

Ascoltando la sua originalissima voce, roca, graffiata, scura, ricca di ornamenti, vibrati e melismi, si ha la sensazione di toccare con mano le radici profonde della terra arsa di Sicilia, di entrare nei meandri più profondi della sua cultura. Questa particolarità le varrà la stima e la collaborazione di grandi artisti e intellettuali di fama internazionale, tra i quali Dario Fo, lo scrittore Andrea Camilleri, il poeta Ignazio Buttitta. Quest’ultimo, amico e collega dell’artista, l’ha definita un personaggio favoloso, un dramma, un romanzo, un film senza volto, avente un cuore vecchio e antico per la Sicilia di Vittorini e di Quasimodo, un cuore giovane per la Sicilia di Guttuso e di Leonardo Sciascia.

È indiscussa l’impossibilità di capire a pieno la poetica di Rosa senza conoscerne la biografia, che è alla base della forza comunicativa delle sue interpretazioni e dei suoi testi. Nata a Licata (1927) in una famiglia poverissima, cresce tra un padre violento, un marito ubriacone, preti abusanti, lutti familiari e umiliazioni continue (tra cui il carcere), senza perdersi d’animo e facendo i lavori più umili per mantenere la figlia e i suoi cari. Lasciata la Sicilia per fuggire a Firenze, tornò a Palermo, nella sua isola, per trascorrere gli ultimi anni della sua vita.

Rosa si è dedicata al difficile rapporto di amore-odio nei confronti della sua terra in molti modi: celebre è ad esempio il suo album La voce della Sicilia (1967) nel quale compaiono canti tradizionali popolari antichissimi, religiosi e profani, recuperati e reinterpretati alla luce dell’ambiente del suo tempo. La sua forza comunicativa si esprime al meglio nei canti di contestazione politica e di impegno sociale: la corruzione, la mafia, le ingiustizie, il clientelismo, la cattiveria, sono tutte tematiche presenti in numerosi suoi brani, tra i quali Mafia e Parrini (Mafia e Preti) e La Sicilia avi un patruni (La Sicilia ha un padrone). In essi Rosa si sente impotente, ma mai rassegnata; le sue sono lezioni civili e di vita, cantate a squarciagola in tutte le piazze del mondo.

La cantatrice del Sud (così chiamata) narra dei campi assolati, delle miniere di zolfo, dei lavoratori sfruttati, dei disoccupati, delle donne siciliane del suo tempo che “vivono come bestie”, della solitudine e del dolore dei carcerati, della nostalgia degli emigranti costretti ad andare lontano per cercar fortuna. In merito a questi ultimi celebre è il brano Nustalgia(scritto da Giuseppe Ciliberto e da lei reinterpretato) cantato con intensa drammaticità, nelquale emerge il dolore della lontananza dai propri affetti e la mancanza nei confronti di una terra dall’odore di zagara e dal sole cocente. In questo pezzo è chiaro anche l’amore per la sua terra e il suo forte senso di appartenenza.

Tra tutti un brano spicca però per forza narrativa e bellezza melodica: Cantu e Cuntu, ovvero “Canto e Racconto”, da molti considerato– insieme a Quannu moru (quando muoio) – il suo testamento spirituale. In questo brano Rosa esprime la sua incapacità di stare zitta di fronte a tutto il dolore che ha visto dipinto sul proprio volto e di quello altrui; non si vergogna a raccontare di essere stata abusata, di non aver ricevuto aiuto da nessuno, neanche dalla mano “nica” (piccola) di un prete. Eppure grida a squarciagola l’importanza del non arrendersi, di non farsi arrestare dal pianto o dalla paura, ma di continuare a lottare.

La forza del suo pensiero riecheggia ancora oggi grazie ad artisti internazionali quali Carmen Consoli, Mario Incudine, Matilde Politi e molti altri, che portano in giro il suo grande lascito. Il suo cantare non era soltanto un canto di privazioni, di abusi e di sogni mai realizzati, maun canto di speranza e amore per le future generazioni. A loro infatti ha espressamente dedicato il suo lascito artistico, promettendo loro che, a modo suo, attraverso quei canti, non le avrebbe mai lasciate sole.

Eleonora Gioveni

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