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Tensione Superficiale

Fotografia di Filippo Ilderico

Lasciato incompiuto a causa della prematura scomparsa di Jean Vigol’Atlante (1934) è il secondo e ultimo lungometraggio diretto dal regista francese dopo Zéro de conduite (1933). La pellicola è uno dei capolavori del cinema francese e la sua influenza sarà fondamentale per lo sviluppo del movimento cinematografico della Nouvelle Vague.

La storia di L’Atlante è quella di Jean (Jean Dasté), capitano dell’Atlante, e di Juliette (Dita Parlo), la sua giovane sposa che abbandona la vita di campagna per vivere con il marito sulla nave. Quest’ultima però, dopo poco, comincia a sentire l’esigenza della terraferma.

I racconti esotici-immaginari delle avventure di un vecchio lupo di mare, il sottoposto di Jean, père Jules (Michel Simon) e quelle di un giovane camelot, spingono Juliette a scappare dall’isolamento della chiatta verso Parigi. Rispetto alle aspettative, però, la città non è come se la immaginava: è un luogo pericoloso e inumano, per questo Juliette decide di ritornare, invano, sull’Atlante. Jean infatti, soggiogato dalla gelosia, ha ripreso la navigazione senza la sua Juliette, abbandonandola così all’ostilità parigina.
Sarà solo grazie all’intervento del vecchio père Jules che i due amanti, dopo aver sperimentato il delirio dell’assenza, potranno ricongiungersi.

Con questo travagliato parto creativo che è stata l’esperienza di L’Atlante, Jean Vigo vuole dare una risposta alle derive delle avanguardie cinematografiche francesi e alla rinnovata esigenza narrativa, una risposta che ponga il proprio focus sul reale.
Al realismo poetico che caratterizza le riprese della pellicola, sono intervallati dei momenti di puro surrealismo che devono la propria origine alla recente esperienza dell’avanguardia francese. 

Il soggetto originario di L’Atlante consente a Jean Vigo di manipolare creativamente «un materiale pre-cinematografico assai banale e denso di ambigui luoghi comuni, per cavarne un film tutto giocato sulle atmosfere» [1]. Il vero “soggetto” della pellicola sembrano essere le atmosfere cinematografiche che Jean Vigo è riuscito a creare intorno agli elementi più materiali. In questo modo il regista fa «scaturire dalle cose stesse o da una vicenda appena abbozzata, dal tratteggio in punta di pennello dei personaggi, l’alone del senso che li tiene in vita, che tiene in vita tutto il film» [2]. 

L’esperienza cinematografica che Jean Vigo ha manifestato attraverso L’Atlante può essere intesa come un’esperienza di piacere a tutto tondo: della vita, dei sensi, «della sorpresa del reale e della sorpresa di fronte al reale» [3]. Questa, però, è anche una epifania della voluttà dell’ignoto, della meraviglia e della scoperta.
La giovane sposa, attraverso i racconti di père Jules, viene sedotta dai suoi cimeli, dalle sue fantasticherie possibili, finendo così per subire «la fascinazione reale della “presenza del mondo”» e «del desiderio di essere nel mondo» [4]. L’incontro con il venditore ambulante e con la sua mercanzia parigina, infine, tocca Juliette nel punto in cui i suoi desideri più reconditi si fanno più intensi, rendendo così insostenibile la curiosità e il desiderio della città.  

Se la separazione dei due coniugi significa per Juliette vagare sperduta in una Parigi attanagliata dalla crisi economica, in Jean l’allontanamento dalla donna amata lo spinge ad andarne alla ricerca ossessiva del suo volto. Per questo motivo si tuffa nel canale e qui, immerso nelle acque limpide «il miracolo si compie. La figura di Juliette in abito da sposa appare a Jean nelle acque del canale, bianca, vaporosa: gira su sé stessa con un sorriso enigmatico, misto di desiderio e di rimprovero, di rimpianto e rinuncia, di distacco e rinnovata complicità» [4].
Con questo film Vigo riesce a rappresentare, attraverso una tensione visiva favolosamente erotica, il costante desiderio di questi due amanti che, nella mancanza, continuano a volersi.

Ma in L’Atlante, l’acqua non è solo una cornice scenografica in opposizione alla terraferma: è anche un elemento in continua mutazione, nonostante la sua superficie rimanga immutata. L’acqua «porta e sostiene, rivela e nasconde, congiunge e trascina, lega e divide» [5].
È proprio nell’acqua che si può rintracciare l’alone di senso rappresentato in questo viaggio, nel suo continuo scorrere, nella rivelazione della vera essenza delle realtà oggettive.

Simone Noris


[1] Maurizio Grande, Jean Vigo, La Nuova Italia, Milano, 1979
[2] Ibidem
[3] Ibidem
[4] Ibidem
[5] Ibidem

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