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Il Grande Vetro e la scatola magica

Fotografia di Filippo Ilderico

Colui che cerca di svelare i misteri del Grande Vetro (1915-1923) di Duchamp cade in un’enigmatica scatola di colore verde che lo porta in un viaggio oltre il visibile. Qualcosa, però, rimane costantemente indecifrabile e imprevedibile: come nel gioco degli scacchi, nonostante le regole siano sempre le stesse, per il Grande Vetro non esiste partita uguale alla precedente.

Quando Marcel Duchamp sbarca a New York, nel 1915, inizia a lavorare all’opera che lo accompagna tutta la vita: il Grande Vetro, due gigantesche lastre di vetro collocate una sopra l’altra, su cui l’artista sigilla con il piombo una serie di enigmi che rinnovano costantemente nello spettatore la necessità di andare oltre quello che vede per scoprire un’incantata “quarta dimensione”, in cui l’opera possa rivelare il suo senso; manca però sempre un tassello e ogni volta sembra impossibile trovare una risposta definitiva.

Nel 1923 lo stesso Duchamp dichiara l’opera “non finita”: un punto fermo al percorso intrapreso e del Grande Vetro non se ne parla più. Una decina di anni più tardi, tuttavia, appare una misteriosa Scatola Verde che viene pubblicata dall’artista con lo stesso titolo del Grande Vetro: “La sposa messa a nudo dai suoi celibi, anche” ma in questo caso senza la virgola.

La scatola contiene tantissimi bigliettini, appunti, schizzi, disegni, note e documenti che sembrano formare una mappa per far luce sul Grande Vetro, indicando la corretta direzione da seguire per leggere l’opera; o almeno così sembra presentarla Duchamp: “nel corso dell’esecuzione redassi un certo numero di note destinate a completare l’esperienza visiva come fossero una guida” [1].
I documenti all’interno della scatola sono 94 e hanno indotto gli studiosi a un lungo e faticoso lavoro di esegesi, con risultati però spiazzanti: le ipotesi variano da una completa mancanza di senso – o meglio una continua ricerca di distruzione del senso tradizionalmente affidato all’opera d’arte – fino a letture mistico-alchemiche.

André Breton, il primo a commentare la scatola, già nel 1935, descrive il Grande Vetro come un “trofeo di una favolosa partita di caccia in terre vergini, ai confini dell’erotismo, della speculazione filosofica, dello spirito di competizione sportiva, degli ultimi risultati della scienza, del lirismo e dello humor” [2], ricordando la grandissima apertura del Grande Vetro a tematiche a volte perfino contrapposte tra loro. Richard Hamilton, invece, lo definisce “la summa dell’opera di Duchamp” [3], ricordandoci come esso affondi le radici in qualcosa che Duchamp stava elaborando ben prima del 1915.

Molti degli elementi sul vetro dipendono infatti da precedenti lavori con cui Duchamp, tra il 1911 e il 1915, indagava il movimento, l’eros e l’automaticità portata dalla macchina nella società contemporanea; temi che si intrecciavano con riflessioni sul tempo e sullo statuto dell’opera d’arte in relazione al suo pubblico e alle convenzioni linguistiche che la definiscono tale.

Tutto questo confluisce poi sulle due lastre del Grande Vetro, sotto forma di un erotismo a metà tra il chimico, il meccanico e il desiderio puro. I precedenti lavori laVergine, Il passaggio dalla Vergine alla Sposa e infine la Sposa ritornano nella parte alta del Vetro; mentre al di sotto il desiderio – rappresentato dai “nove stampi maschi in uniforme” che cercano di raggiungere la sposa ormai sublimata – viene filtrato tramite una serie di oggetti dal funzionamento automatico: la macinatrice di cioccolato, i setacci, la slitta contenente un mulino ad acqua e metalli vicini, ecc. che creano una sorta di “enorme macchina masturbatoria”[4], la quale però non sembra funzionare come dovrebbe.

Prima della pubblicazione della Scatola Verde questi e molti altri dettagli dell’opera sembravano sospesi in un alone di mistero senza risposte. Una volta aperta la scatola, infatti, si spalanca un vasto immaginario formato da infinite strade che il lettore percorre persuaso di svelare il mistero. Man mano che procede, però, le domande anziché trovare risposta cominciano a moltiplicarsi.
I temi si sdoppiano in un labirinto in cui sembra che lo stesso Duchamp non abbia disegnato una via d’uscita. La sensazione è che, con il Grande Vetro, egli sia stato in grado di prevedere ogni mossa dello spettatore, spiazzandolo ogni volta che crede di avvicinarsi a un risultato. Una partita a scacchi con Duchamp, gioco da lui così amato da portarlo, nel pieno della sua carriera artistica, alla decisione di abbandonare la pittura per dedicarsi professionalmente agli scacchi.

È noto come Duchamp cercasse di superare quello che a detta sua era uno dei grandi limiti dell’arte, il “retinico”, come lui stesso lo definiva, ossia la trappola del visivo nella quale erano cadute, secondo Duchamp, anche tutte le maggiori avanguardie del tempo, dal futurismo al cubismo. Un ostacolo che precludeva l’apertura dell’opera ad altre dimensioni non più solo bidimensionali o tridimensionali, non più solo visive ma anche verbali, mentali, contemporanee. In questo senso sembra muoversi anche la decisione di affiancare al Grande Vetro la Scatola Verde, quasi come fosse un complemento verbale, o una “guida” appunto, alla parte visiva dell’opera.

Oltre a mostrare come il solo senso della vista non sia ormai più sufficiente, Duchamp rompe la tradizionale “sospensione dell’incredulità”, implicito patto, tra autore e lettore, di accettazione dello statuto di finzionale dell’opera d’arte; il patto viene rotto tramite la sostituzione dello sfondo dipinto con il fondo trasparente [5]; attraverso il vetro, lo sfondo su cui si stagliano i personaggi è, infatti, il medesimo dello spettatore e non più qualcosa di distante e illusionisticamente separato da lui: la realtà entra nell’opera stessa.

In questo modo anche lo sfondo non è mai fisso ma continua a cambiare a seconda di cosa c’è dietro e di chi lo attraversa.
Le interpretazioni offerte allo spettatore si configurano così come una salita verso una meta costantemente instabile. Un’ascesa, al tempo stesso filosofica e saldamente aggrappata allo spazio del reale; una salita che già nel 1914 Duchamp aveva schizzato nel disegno, tanto semplice quanto significativo, di un ciclista etico (o Avere l’apprendista nel sole) che sale su una collina ridotta a una linea, chino su una bicicletta. “Il ciclista etico e i celibi della parte inferiore del Grande Vetro, il salire del ciclista e l’ambire dei celibi alla sposa, la fatica del ciclista e il desiderio dei celibi, la fisicità stessa del desiderio, dimostrano in quanti modi diversi Duchamp procedesse nel pensare le medesime questioni” [6].

Anna Giuseppina Nicolini


[1] M. Duchamp, A proposito di me stesso in M.D. Scritti, Abscondita, 2018.
[2] André Breton, Il faro della “Sposa” in “Minotaure”, II, n. 6 (1935); poi in Le Surréalisme et la pinture, Brentano, New York, 1945, trad. it. Stefano Chiodi.
[3] R. Hamilton, Il Grande Vetro in E. Grazioli (a cura di) Marcel Duchamp, Riga, Maros y Marcos, Milano 1993.
[4] R. Krauss, Marcel Duchamp o il campo immaginario, in S. Chiodi (a cura di) Marcel Duchamp. Critica Biografia e Mito, Electa, Milano 2009.
[5] R. Krauss, Forme del ready-made: Duchamp e Brancusi, in Passaggi, Bruno Mondadori, Milano, 1998, trad. it. E. Grazioli.
[6] C. Subrizi, Introduzione a Duchamp, Laterza, Roma Bari, 2008.

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