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Viale Fulvio Testi cerco ora

Periferia di Milano, primi anni Duemila. Ernesto, reduce dall’ennesimo rendez-vous scopereccio tra l’erba umida del Parco Nord, trova la moglie Agata senza vita in una casa-prigione scialba e soffocante. Il lutto improvviso esaspera i sensi di colpa di un protagonista e della sua «vita sconosciuta» agli occhi mondo.

Il Parco Nord di Milano è il luogo ideale per i tradimenti di Ernesto, cinquantenne da poco disoccupato e protagonista de La vita sconosciuta di Crocifisso Dentello (La Nave di Teseo, 2017). Il romanzo mette in luce, fin dalla soglia incipitaria, sia la scelta cronotopica sia le modalità quasi brutali con cui l’uomo riempie le proprie notti stanche: 

«Mentre Agata rincorreva il suo ultimo respiro, sciogliendo il suo finale di vita in un sonno senza più risveglio, io me ne stavo genuflesso sull’erba umida del Parco Nord, profanato dal cazzo di un tunisino e accogliendo nella mia bocca, come in una torbida eucarestia, il suo seme di musulmano infedele» [1].

Con grande forza incisiva l’autore, oltre a raccontare in maniera esplicita un rapporto orale conclusosi nel migliore dei modi, evidenzia un parallelismo, una contemporaneità fatale che costituirà elemento fondativo delle paranoie e riflessioni di un protagonista e dei suoi infinitamente lagnosi sensi di colpa: mentre lui è inginocchiato, quasi prostrato ad adorare un ragazzo di vita tunisino, nello stesso momento la moglie è a casa a inalare il suo ultimo e stanco respiro.

Non è la prima volta che Ernesto lascia la moglie Agata a casa la sera tardi. Anzi, queste uscite notturne potevano anche essere lette dai membri della coppia come una sorta di terapia ad un matrimonio ormai sfibrato, spento e da tempo logorato da liti che non sembrano voler finire:

«Tollerava le mie uscite notturne. Credeva fossero una mia personale terapia per depurare il clima tossico delle nostre liti, convinta me ne andassi a sbronzarmi in un bar di cinesi lungo viale Suzzani per nutrirmi di autocommiserazione» [2].

Consapevole delle flâneries notturne del marito, Agata però non poteva immaginarne le destinazioni: parchi, stazioni ferroviarie, localacci al neon dell’hinterland, parcheggi dismessi, vicoli bui. Sede elettiva per rapporti sessuali con immigrati in cambio di pochi euro o di una ricarica del telefono, la periferia Nord di Milano diventa per il protagonista del romanzo di Crocifisso Dentello il luogo ideale per dare sfogo ai propri vizi tenuti nascosti non solo alla moglie, ma al mondo intero.

Ernesto ha due vite ed è riuscito a tenerle fino ad ora, a detta sua, separate. Entrambe, però, vengono descritte come abbastanza insignificanti e anonime, dalle quali emerge un protagonista francamente inetto e privo di personalità. Di giorno Ernesto è un marito assente, un disoccupato che non fa nulla per rimediare a questa situazione, mentre di notte, stanco di una routine cadenzata su note di ripetitività scialba e inconcludente, si avvia per peregrinazioni notturne in cerca di giovani ragazzi che accettano di avere un rapporto sessuale veloce in cambio di pochi spiccioli: Ernesto non ha di certo le possibilità, fisiche ma soprattutto caratteriali, di rapporti che non siano a pagamento.

Il ritorno a casa, e la scoperta della moglie deceduta, esaspera i sensi di colpa del protagonista, e il vano tentativo di risvegliarla evidenzia ancora di più il parallelismo di cui si diceva: 

«La bocca che ora scandiva il suo nome in un crescendo di dolorosa incredulità, era la bocca che aveva leccato il cazzo di un prostituto nordafricano. La bocca che implorava il buon Dio e che poi si spezzò in un urlo lacerante era la bocca di un uomo che aveva consacrato i suoi giorni a una doppia vita costellata da menzogne e tradimenti: far sparire delle ore come buchi neri, progettare appuntamenti falsi, inventare ritardi, simulare rabbie immedicabili» [3].

Disperazione, certo: ma ora, nella mente di un protagonista che ha dovuto nascondersi per troppo tempo, balena un pensiero, un mix tra disperazione e sollievo che appare, agli stessi occhi di Ernesto, «sconcio»:

«Non riuscì a impedirmi di pensare – mentre mi cambiavo infilando dentro il cestello della lavatrice gli indumenti con i quali ero uscito – che la sua fine mi metteva di fronte a una crudele novità. Ora potevo scopare con chi volevo senza più il timore di essere scoperto. Era un pensiero sconcio, che mi mordeva lo stomaco, eppure si mescolava prepotente al dolore che mi annientava» [4].

Dopo la morte di Agata iniziano delle giornate vuote e disperate per il marito, divorato dal senso di colpa – ma che non smette di comprare, di questo si tratta d’altronde, amore sporco dai giovani tunisini di Cinisello:

«Il senso di colpa divora ogni sentimento perché non può smettere di bruciare, di incenerire frammento per frammento la mia dignità […]. Posso esorcizzare i miei misfatti, le mie mancanze, i miei tradimenti, le mie piccole viltà, ma non posso riscattarli perché manca il perdono di chi li ha subiti» [5].

La vita sconosciuta è il romanzo di una coppia e del tempo che passa e che non concede scampo, un tempo nel quale i protagonisti arrancano e dal quale vengono fagocitati, un tempo che ha cancellato l’amore, gli entusiasmi iniziali di una coppia come tante in una città che offriva molto – la Milano della rivoluzione studentesca – e che ora è soltanto una metropoli anonima che fa da sfondo a litigi incomprensioni silenzi di una moglie avvilita e mortificata perennemente da un marito inerme, alla vita e a sé stesso. 

Ernesto ha perso il lavoro e da quel momento il nucleo famigliare sopravvive, si fa per dire, solamente con lo stipendio di Agata, donna di servizio presso una famiglia facoltosa. Stanca dai lavori e spesso anche umiliata, la donna, emigrata dalla Sicilia nei primi anni ’70, nel romanzo di Dentello assume sfumature svilite e noiosamente disilluse. Agli occhi del marito, la stanchezza della donna sembra quasi esasperata in una sorta di pantomima domestica: 

«Ogni volta che rincasava dal lavoro era come se si impegnasse a recitare la stanchezza. Non che non fosse realmente esausta, ma sentiva l’esigenza di esasperarne la rappresentazione. Nei suoi gesti casalinghi io non dovevo leggere nessuna tregua ma il filo di una ininterrotta fatica quotidiana» [6].

Mentre il marito rimane a casa, trascinandosi in giornate sempre uguali e prive di qualsiasi entusiasmo – anche le scopate clandestine non brillano di certo di gaudente vitalità –, la donna vive una condizione lavorativa tra le più estenuanti al pari di una condanna: 

«Raccontava le sue ore di fatica con gli occhi di una che sta in gabbia, dentro a una condanna definitiva. Non era stata una scelta fare la domestica in un appartamento di un palazzo signorile di via Vincenzo Monti ma un ripiego obbligato nel naufragio delle nostre esistenze» [7].

Al racconto del presente anonimo di una coppia ormai logorata e vittima di sé stessa fa da contraltare, nel romanzo di Dentello, un passato che, solo all’apparenza, sembra più vivo ed entusiasta, quello in cui Agata ed Ernesto si sono conosciuti. 

Sono gli anni delle rivoluzioni studentesche e delle lotte operaie e i due giovani sembrano trovare affinità e punti in comune proprio nell’entusiasmo con il quale portare avanti le proprie ideologie in una città che, prima di altre, coglie un irrefrenabile desiderio del cambiamento. In realtà bastano poche righe a delineare come tra i due sia solamente Agata a credere fermamente ad una possibile rivoluzione, mentre Ernesto, anche in questo caso, si lascia trascinare e quest’utopia rivoluzionaria diventerà per lui l’ennesimo fallimento, simbolo di una debolezza e, anche qui, di un rimorso che verrà chiarito al lettore solamente al termine del romanzo. 

La vita sconosciuta è un romanzo che racconta in egual misura li logoramento e il lento sbiadirsi e di una coppia e di un credo politico. Dalle manifestazioni giovanili alla noia coniugale, dalle strade, luogo della rivoluzione, ad un’intimità domestica noiosamente monotona:

«Nel tempo della sua maturità era come se Agata non solo avesse rimosso la sua giovinezza di slogan incendiari e progetti di palingenesi ma come se quella vita non ci fosse mai stata, guardata a distanza tutt’al più come una testimone accidentale. Una parte lontana della sua vita, come un pianeta che gira per conto suo in qualche punto remoto dell’universo. Sopravvivenza soltanto, depurata tutta in una contesa coniugale, l’energia conflittuale di quel periodo, la capacità dialettica di sferzare l’interlocutore, la temerarietà di una mano che si leva anche per aggredire a freddo. […] Ora la rivoluzione la faceva dentro casa, tra i fornelli da sgrassare e i panni da stendere. Il mondo che voleva cambiare si era ridotto alle stanze che attraversava con le sue pantofole sdrucite» [8].

Al di là dei rimorsi legati all’educazione sentimentale di Ernesto e alla sua vocazione politica, nel romanzo di Dentello è fondamentale una riflessione legata agli spazi e al ritratto che viene fatto della città di Milano. Più che concentrarsi sulla Milano rivoluzionaria degli anni Settanta, la delineazione cronotopica dell’autore sembra spiccare per originalità soprattutto in merito alla Milano del tempo presente, alla città che fa da sfondo alle promenades notturne di un protagonista in perenne ricerca dell’ennesimo ragazzotto straniero. 

Innanzitutto, va sottolineato che in una sorta di geografia urbana del romanzo predomina senza dubbio la periferia nord della città. È lo stesso io-narratore a delineare i confini topografici del suo sporco itinerario:

«La meta era solo una, quella e basta, senza variazioni possibili. Il mio itinerario di depravazione si snodava dal portone del nostro stabile in viale Fulvio Testi fino a quella topografia proibita dove il Parco Nord, a ridosso del confine tra Bicocca e Cinisello Balsamo, abbraccia un complesso scolastico» [9].

Pochi, anzi, pochissimi i riferimenti alla Milano del centro. Se per Ernesto i propri vizi devono rimanere nascosti, quasi nell’anonimato, ecco che allora i confini del Parco Nord o delle piccole grandi cittadine a ridosso della città di Milano appaiono sedi ideali per le proprie serate.

Ben ovvio, allora, che la periferia scopereccia di Ernesto è quella illuminata non dal sole, bensì dà lampioni che irradiano luce fioca su di un paesaggio urbano dei più desolati: «[…] Per le strade pochi irriducibili dai ritmi rallentati: anime solitarie, cani randagi, festaioli barcollanti sull’orlo di un coma etilico, cingalesi tristi con mazzi di rose flosci di rose» [10].

Nel romanzo prevale una forte dicotomia tra giorno e notte: «Attraversare la notte di quel ritaglio di Milano – a dispetto della sua versione diurna dove la luce genera essa stessa frastuono e illumina uno sciame di corpi ansiogeni in movimento – era come valicare il confine di un paese straniero» [11].

Se la luce diurna è riservata alla frenesia, al lavoro, ai progetti, all’ansia spasmodica di un fare – elementi ormai lontani, si è detto, dalla routine scialba di un fannullone – ecco che la Cinisello by-night con la sua fauna ben si confà alle esigenze del protagonista e alla sua fame di eros clandestino:

«Non smetto di sorprendermi per la capacità camaleontica di Milano di contenere in sé la quotidianità più inoffensiva e focolai di dissolutezza in un abbraccio che spesso confonde tutto senza distinzioni. In quello stesso tratto erboso del parco dove di giorno rotola la palla di un bambino sotto lo sguardo vigile della madre, di notte si aggruma una bava di sperma sotto lo sguardo lubrico di due uomini contronatura» [12].

In realtà non si tratta di due versioni della stessa città, bensì della «capacità camaleontica» di Milano di poter avere con sé, quasi abbracciati, entrambi gli aspetti, entrambi i lati che, uniti, costituiscono elemento fondativo di una metropoli a volte anonima e tranquilla ma, allo stesso tempo, dissoluta e conturbata.

Alessandro Crea


[1] C. Dentello, La vita sconosciuta, La Nave di Teseo, Milano 2017, p. 9.
[2] Ibidem.
[3] C. Dentello, La vita sconosciuta, op. cit., p. 11.
[4] Ivi, p. 12.
[5] Ivi, p. 41.
[6] Ivi, p. 17.
[7] Ivi, p. 18.
[8] Ivi, p. 46.
[9] Ivi, p. 10.
[10] Ibidem.
[11] Ivi, p. 10.
[12] Ivi, p. 35.

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