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Caserta calling

Clara ha scelto di abbandonare una Caserta un po’ noiosa e bigotta per intraprendere una nuova vita a Londra. Il matrimonio della cugina Rossella è l’occasione che riporta Clara, protagonista di Ragazze perbene (NNE, 2023) al proprio paese natale, in una sfilata scialba di personaggini emblematici di città che sono sempre rimaste paesi.

Ragazze perbene (NNE, 2023) segna l’esordio narrativo di Olga Camprofreda e lo fa attraverso una scelta editoriale ben precisa. Il romanzo, uscito alla fine di gennaio, è infatti il terzo volume della serie le Fuggitive, collana che, come indicato in quarta di copertina, vuole proporre «storie di donne in fuga, alla ricerca di libertà e di una rifondazione della propria esistenza. Le fuggitive non si sentono mai aderenti ai canoni del femminile e, in una costante peregrinazione senza meta, accettano il rischio di abitare lo spazio senza tempo del desiderio e dell’amore».

La ricerca di libertà è sicuramente il motivo alla base della scelta di Clara, giovane aspirante scrittrice, di lasciare la provincia casertana per trasferirsi nella ben più seducente metropoli londinese. Tuttavia, ai sogni giovanili si sostituisce una triste realtà fatta di precariato, di lavori saltuari e di stipendi di certo non generosi, guadagnati insegnando italiano a giovani e meno giovani studenti londinesi. 

Clara vive in una piccola stanza nei pressi di Victoria Park ma passa la maggior parte del tempo a casa di Tomàs, un ragazzo con il quale si trova molto bene, pur non ufficializzando alcun tipo di relazione. Prima di Tomàs, Clara cade in questo vortice tragicomico di incontri online su Tinder: alcuni scialbi, altri divertenti, qualche caso umano e ben pochi brividi trasgressivi all’insegna del sesso più liberatorio e godereccio.

Qualche lavoretto, una stabilità comunque precaria data da un lavoro che le fa guadagnare quello che poi deve spendere per una stanza angusta e arredata male e qualche «It’s a match!» sullo schermo dell’iPhone: ecco le tappe di questa «rifondazione della propria esistenza» che campeggia nell’editoriale. Insomma, una rifondazione del sé che appare, ad una prima lettura, un po’ noiosa: c’è la volontà di staccarsi dalle ragazze perbene cui si fa riferimento in copertina, senza però riuscirci completamente. O meglio, è giusto che il lettore si aspetti trasgressione e ribellione rimanendo, quindi, un po’ deluso nel leggere la routine di questa giovane insegnante a tratti anche un po’ antipatica? È una domanda che aleggia fin dalle prime pagine e a cui, forse, solamente alla fine si può dare una risposta.

La vita londinese però ad un certo punto deve fermarsi per qualche giorno. Clara, infatti, deve ritornare nella città natale per il matrimonio della cugina Rossella, emblema, Clara disant, della ragazza perbene di provincia, quella che si sposa finalmente con il ragazzo storico ben visto dal paese, la giovane ragazza ormai donna pronta alle domeniche in famiglia, alla camicia bianca, alla sveglia presto per il ragù, al sistemare la casa per il suo uomo e, ovviamente, all’avere due figli, un cane e una monovolume con cui andare al centro del paese per mostrarsi, per far vedere a tutti che sì, ora, con un uomo al fianco, ce l’ha fatta, è diventata qualcuno. 

L’arrivo di Clara al paese spicca per disagio e imbarazzante impaccio rispetto ad una realtà che ormai non sente più sua: una madre un po’ scocciata perché non è la sua di bimba a sposarsi, un padre simbolo di quella sborona virilità di paese, i pettegolezzi del vicinato, gli sguardi. Lei si sente diversa, anche se molte volte il suo sentirsi estranea al paese natale sfocia in un fastidioso snobismo che però, in fin dei conti, appare ben più che comprensibile. 

Inutile soffermarsi troppo sulla trama del romanzo, non tra le più sorprendentemente avvincenti, meglio piuttosto concentrarsi sugli aspetti che maggiormente vengono centrati nell’esordio di Campofreda, senza dimenticare, però, anche alcuni punti deboli che inficiano sul commento complessivo di un romanzo non povero di occasioni mancate. 

Ciò che l’autrice è riuscita a compiere è sicuramente una perfetta delineazione cronotopica della città di provincia così come appariva alle giovani cresciute a cavallo tra gli anni Novanta e i primi anni Duemila: sono gli anni di «Non è la Rai», dei walkman, delle corse in motorino, dei poster degli idoli appesi alle pareti di stanze arredate male, anni in cui iniziano a delinearsi modelli, prototipi femminili da voler imitare con tanta voglia ma con i risultati più mediocri. Sono gli anni dei primi reality show, dei tronisti e dei pantaloni skinny, anni di «monelle vagabonde», di «angeli e demoni», della Rams e di suonerie orripilanti che riempivano le peggiori pubblicità del tubo catodico. Tutti questi aspetti, simboli di un’epoca per fortuna lontana, hanno una eco ancora più grande nelle piccole grandi città di provincia, diventando davvero emblematici e fondativi della vita di ragazzotti e ragazzotte forse ancora troppo poco intelligenti per discostarsi dal resto, dall’informe massa. Non è ancora stagione tempo modo dell’anticonformismo: in provincia tu ti adatti, altrimenti sei diverso e «la città», qualunque essa sia e indipendentemente da grandezza e numero di abitanti, parla di te. Cassa di risonanza di questi aspetti, ovviamente lei, la televisione: «Gli anni Novanta hanno allungato i loro tentacoli sulla provincia attraverso lo schermo della televisione». [1]

Oltre alla descrizione di quell’ambiente e dell’immaginario collettivo che ne fa da sfondo, l’elemento più centrato dall’autrice è sicuramente la descrizione delle ragazze e, in generale, del concetto di femminilità legato sia a questo mondo televisivo sia alla città di provincia, ai suoi tempi e ai suoi rituali un po’ grotteschi, che nonostante il passare del tempo rimangono immutati. 

Le ragazze di provincia o vivono nell’attesa del tronista, di sfondare nel mondo del reality show e della televisione, oppure – soprattutto le ragazze perbene – sperano nell’arrivo del principe azzurro, dell’uomo che possa, finalmente, salvarle, in una realtà in cui il successo e il diventare una donna realizzata coincide con la cura dei figli e del marito: 

«Ci avevano cresciute lasciandoci credere che saremmo diventate donne quando avremmo imparato a badare a una casa tutta nostra, a prenderci cura dei nostri figli, di nostro marito. Crescere non sembrava poi così difficile, le istruzioni erano davanti ai nostri occhi, erano ovunque: a scuola, a casa, in chiesa la domenica, alla cassa del supermercato […]». [2]

In un mondo così castrante e asfittico, grande assente è il desiderio, sessuale, in primis, ma anche di evasione, di ricerca di un altrove che può essere solo scritto nelle pagine di un vecchio diario con lucchetto ma mai, effettivamente, raggiungibile: «[…] Non eravamo pronte a fare i conti con il desiderio, nessuno ce ne aveva mai parlato». [3]

Dopo un’esperienza sessuale a tre in un night club londinese, Clara, ormai donna, si ritrova a pensare confrontandosi con la bambina d’un tempo: «Distesa su quel letto ero donna ed ero bambina. Mi liberavo di un colletto troppo stretto e di quella gonna di lana che pungeva sulle cosce. Che cosa era stata davvero la vita delle ragazze perbene? Tenerci docili, crescere nella vergogna chiamandola purezza. Imprigionate come Belle nel palazzo della Bestia, ci avevano addestrate ad avere paura della rosa tumulata nelle segrete del castello, lontana dal nostro sguardo». [4]

Questo aspetto fondamentale nel romanzo potrebbe portare ad alcune riflessioni volte a sottolineare dei punti deboli che ne caratterizzano la diegesi. La morfologia romanzesca è costruita su questa continua alternanza tra Caserta e Londra. Caserta è una città, grigia, piatta, senza occasioni e senza aspettative per un futuro che non sia quello della mogliettina trofeo.

Ecco una delle prime descrizioni della città: «La mappa del centro e delle periferie – la distribuzione dei palazzi – ha forgiato i caratteri delle generazioni, ne ha determinato la disposizione a sognare o a non farlo, a guardare avanti immaginando il futuro, o a procedere a passo moderato, lo sguardo ben fisso sulla punta delle scarpe» [5]. E poi, ancora, Caserta appare agli occhi della protagonista «una città che giace adagiata sugli sfarzi di un regno che fu, la cui eredità è così pesante che non si riesce a procedere oltre» [6].

Anche dal punto di vista culturale la città appare di una desolazione delle più scialbe, da osservare con fare sconfitto e distante: «Caserta non mi manca mai, ma a volte mi manca quando ci sto. Mi manca ciò che non è mai stata e che avrebbe potuto essere per la mia generazione, quella cresciuta a ridosso del nuovo millennio, senza un cinema, senza una biblioteca, senza luoghi di ritrovo in cui sostare a raccontarsi e a immaginare un futuro» [7].

Senza soffermarsi troppo sulle descrizioni della città – tutte piuttosto uguali e scontate – occorre sottolineare, appunto, la decisione di Clara di andarsene a Londra. Stanca di una vita piatta, inconcludente, caratterizzata da un bigottismo provinciale desolante e ai limiti del grottesco, di una città che non ha nulla da offrire, la giovane va a Londra. Dal punto di vista romanzesco è interessante il poter confrontare Caserta con la capitale londinese, di gran lunga più all’avanguardia, anche più trasgressiva, senza ombra di dubbio, rispetto alla città campana. Eppure, la vita che viene raccontata dalla giovane è una vita comunque abbastanza noiosa, dove il massimo della trasgressione è qualche “hook up” su Tinder e una bevuta al night.

Seppur ad una prima lettura questo è il pensiero che potrebbe sorgere nella mente dei lettori e delle lettrici, in realtà occorre sottolineare un aspetto importante e allontanare quello che potrebbe essere un fraintendimento sull’intento romanzesco di Campofreda. L’autrice, infatti, non vuole scrivere un romanzo sovversivo, quindi non occorre troppo forzare il confronto tra le due città. Il tono e le modalità con cui descrive Caserta sono proprio utili a delinearne il piattume scolorito e smorto: tutto – descrizioni, personaggi, rituali – appare sottotono, proprio perché è così che risulta l’orizzonte urbano per chi lo vive quotidianamente. Ecco allora che la vita a Londra, anche se non costituita da sesso droga e rock’n’roll, appare comunque una vita diversa e non scialba come quella che avrebbe vissuto Clara qualora fosse rimasta con le altre «ragazze perbene». È una vita diversa non tanto per intensità, quanto piuttosto proprio per stile di vita: indipendente, sola ma perché così si vede, in cerca di rapporti occasionali qualora si desideri – e sì, finalmente si può lasciare spazio al desiderio – del sesso e, soprattutto, libera, lontana da certi schemi ormai impolverati.

Tuttavia, un punto decisamente debole del romanzo è la caratterizzazione poco approfondita di alcuni personaggi. La cugina Rossella, infatti, all’apparenza emblema della «ragazza perbene», nasconde qualche segreto: ha avuto o non ha avuto un interesse per l’amica Leo? È davvero salita a Milano, scappando da tutto e da tutti, per andarla a trovare? E alla base di questo viaggio c’era realmente un interesse, un’infatuazione nei confronti dell’amica modella? Rossella poteva davvero essere un personaggio prorompente, capace di sparigliare un po’ le carte, di mostrare l’altro lato delle ragazze perbene, restando invece immobile, ferma, scialba, figlia di quella stagnazione provinciale che pervade le pagine romanzesche, costituendone, forse, l’aspetto meglio riuscito. 

Alessandro Crea


[1] O. Campofreda, Ragazze perbene, NNE Milano, 2023, p. 79.
[2] La frase si trova nella quarta di copertina.
[3] O. Campofreda, Ragazze perbene, op. cit., p. 162.
[4] Ivi, p. 147.
[5] Ivi, p. 21.
[6] Ivi, p. 22.
[7] Ivi, p. 99.

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