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Napoli Hiroshima andata e

Amoresano, quasi trentenne plurilaureato ma costretto – da chi? – a tirare a campare in un mondo senza un posto per lui, schizza il ritratto di una Napoli “ferita a morte” perennemente soffocata da un cielo grigio e malinconico come certi film della Nouvelle Vague.

Amoresano, prossimo ai trent’anni d’età, esce da un albergo in seguito all’ennesimo colloquio di un lavoro scialbo e svilente, simbolo emblematico di un mondo, quello lavorativo, che nel romanzo di Forgione spicca per amara e sconfortante precarietà. Davanti ai suoi occhi uno scenario urbano schizzato con tonalità delle più grigie: 

«Fuori dall’albergo la città mi sembrò una bestia morente, un fiore appassito. La gente camminava e non sembrava accorgersene. Avrei voluto urlarle in faccia. Qualcosa, non so cosa. Piccoli pezzi di questa grande merda, forse, chissà.» [1]

Una Napoli ferma, immobile. Una città monocolore, dove il cielo alluminio e la pioggia incessante ben rifrange l’animo di un protagonista malinconico e ormai arreso, in perenne ricerca, ça va sans dire fallimentare, del proprio posto nel mondo; anch’egli insanabilmente bloccato, proprio come la città che fa da sfondo alla non-bildung di un giovane come tanti in una città-Paese ormai priva di punti di riferimento stabilmente solidi:

«In piedi, circondato da estranei, pensai che non avevo mai davvero preso in considerazione l’ipotesi di andare via. Che avevo provato a costruire delle cose, a farle crescere per crescerci sopra anch’io, come se mi spuntassero da sotto i piedi, ma che era anche tanto tempo, troppo, che tutto s’era bloccato. Provai orrore al pensiero che forse mi ero seduto sul ciglio della strada ad aspettare che le cose andassero o che qualcuno si fermasse a raccogliermi.» [2]

Amoresano è il protagonista di Napoli mon amour, primo romanzo di Alessio Forgione e pubblicato da NNE nel 2018 nella collana la Stagione e dedicata agli esordi. E quello di Forgione è un grandissimo esordio, un romanzo malinconico, crudele ma vero e forse è proprio questa verità amara di fondo a renderlo un libro spietato e che non lascia scampo. 

Plurilaureato e con un passato lavorativo nelle navi da crociera, il protagonista di Napoli mon amor è un non più giovane non ancora uomo che attende; cosa, forse, non lo sa nemmeno lui. La felicità? Una stabilità economica? La serenità con sé stesso e con gli altri? In realtà Amoresano non si pone troppe domande sul cosa, effettivamente, stia cercando nel corso di molte flâneries urbano-baristiche nel capoluogo campano. Critico verso e il mondo e verso sé stesso, lo sguardo giudicante del protagonista è severo e polemico: «Mi sarebbe piaciuto essere chiunque eccetto che me» (p. 11). 

È possibile dividere il romanzo di Forgione in tre momenti ben distinti. Il primo è utile soprattutto alla delineazione e del personaggio di Amoresano con annessa la sua condizione di vita precaria e, inoltre, della «sua» Napoli. A descrivere l’instabilità della propria situazione ad un amico – «E tu? Che stai facendo, come ti vanno le cose?» (p. 10) – è lo stesso protagonista, che con la strafottenza ennuyée che lo distinguerà per tutto il romanzo, ribadisce: «Gli risposi che mandavo curriculum e che faceva freddo e che non accadeva altro. Non gli dissi nulla dei racconti che provavo a scrivere». [3]

Non accade nulla, proprio così. Non accade nulla delle giornate di questo giovane che ogni mattina si alza, manda qualche curriculum, studia per un concorso che sa che non proverà mai, cammina per una Napoli fredda spendendo i pochi, anzi pochissimi, soldi che ha a disposizione e discute con due genitori che nel sistema attanziale brillano per un’insipidità stucchevole e paradigmatica di quanto la gioventù debba ormai convivere con la perdita delle figure parentali come emblematiche di solidità e buon esempio. 

Se per qualche pagina il pensiero costante del protagonista è quello di andarsene da Napoli – la meta è il solito e sbiadito cliché londinese – basta poi un piccolo controllo sull’esiguo conto in banca per ingoiare amaramente l’ennesima sconfitta: da Napoli non te ne puoi andare, non ne hai la possibilità. L’unica attività che sembra interessare – sembra, attenzione – Amoresano è la scrittura – bellissimi i riferimenti a Ferito a morte di La Capria e le pagine dedicate all’incontro con lo scrittore – che, nonostante gli scarsi risultati, riesce a dare della speranza al giovane, soprattutto nella seconda parte del romanzo che coincide con l’incontro con una donna, la bellissima Nina. 

Ecco che questa Lolita partenopea – numerosi i richiami al personaggio di Nabokov – appare sotto una luce del tutto positiva, almeno inizialmente, per la vita di Amoresano e ciò è ben sottolineato dal sole che, finalmente, illumina piazza del Gesù e una città fino a questo momento fredda e piovosa.

Se la Napoli descritta nelle prime pagine oltre che essere lontana dai soliti cliché rappresentativi sembra più avvicinarsi alla deprimente Biella cara all’immaginario più recente di Zerocalcare (Strappare lungo i bordi, 2021), ora il cielo della città è di un blu rassicurante e anche il protagonista ha lasciato a casa lo sguardo e la postura malinconicamente crucciata che l’ha contraddistinto per tutta la prima parte del romanzo: 

«Il sole, in cielo, si spremeva spingendo i suoi raggi quanto più poteva. Piazza del Gesù, dall’angolo da dove guardavo, era inondata di luce. Non indossavo il cappotto ma il giubbino di pelle, non le scarpe da ginnastica nuove ma delle stringate, pagate molti soldi in una vita precedente. M’ero rasato e avevo scelto accuratamente la camicia, azzurra con dei fiori blu stampati sopra. Riflesso nel vetro sporco del treno, pensai che non sembravo del tutto un rottame.» [4]

Attraverso il personaggio di Nina, Amoresano sembra aver modificato in parte il proprio sguardo sul mondo. Di fondo comunque malinconico e pessimista, ora il napoletano si lascia andare però a momenti di felicità, gli unici di tutto il romanzo, trascorsi proprio con la giovane, una studentessa di filosofia che sogna di entrare nel mondo del cinema. Se molte volte i pensieri di Amoresano hanno lasciato spazio a tonalità macabre e funeree – immaginazione del proprio funerale, ipotesi di suicidio, ecc. – ora l’incontro con Nina sembra ridare al protagonista una sorta di fiducia, che durerà molto poco, nei confronti della vita:

«Sentii la sua lingua nella mia bocca e non so che musica ci fosse oltre la vetrina, perché in realtà non sentii niente, più niente, e nella mia mente cominciò a suonare Brown sugar dei Rolling Stones, a volume altissimo, e coprì tutto. In quel preciso istante mi sentii cattivo, capace d’assaltare e conquistare, uccidere e derubare senza farmi domande. E soprattutto di vivere. Solo vivere.» [5]

Dopo una vita passata ad attendere, Amoresano crede di aver trovato ciò che per anni ha aspettato: «La strinsi tra le braccia e le risposi che m’era sempre sembrato d’aspettare qualcosa e che solo in quel momento avevo capito che non avevo fatto altro che aspettare lei.» [6]

La storia d’amore è destinata però a durare molto poco, Amoresano e Nina sono estremamente diversi. La differenza non è di natura economica come, auto ingannandosi, crede il giovane, che pagina dopo pagina ricorda al lettore quanti soldi – sempre meno – siano rimasti sul conto corrente. La diversità tra i due è legata allo sguardo sulla vita, ai progetti e alla realizzazione del sé. Nina, seppur più giovane, sa quello che vuole e mostra un atteggiamento tutt’affatto contrario a quello del ragazzo: manda application per programmi Erasmus – verrà presa per un’esperienza a Barcellona che segnerà la fine della loro breve ma intensa relazione –, sogna di entrare nel mondo del cinema e fa di tutto per realizzare le proprie ambizioni. Amoresano, invece, appare immobile dando però colpa alla città di Napoli, «bestia morente» e «fiore appassito», senza però pensare per un secondo che il problema in realtà possa essere proprio lui.

Se il primo incontro tra i due si svolgeva sotto il sole abbagliante, ora, dopo che Nina contenta e orgogliosa racconta di essere stata assunta per un lavoro e ribadisce la futura partenza per Barcellona, Amoresano, lungi dall’essere felice per la propria ragazza, appare ormai arreso alla fine della relazione, e il cielo appare ora di un grigio dei più conturbanti con un sole che, tristemente, lascia spazio alle nuvole:

«Le sorrisi, ma lo percepii più come un gesto di circostanza che una cosa vera, perché pensai che tutto volgeva al termine, che il processo che portava alla fine fosse già cominciato.» [7]

E poi, qualche paragrafo dopo, ancora: «Aspettammo ancora, fermi sul binario. Non pioveva più e non avrebbe più piovuto, ma il cielo era colmo di nuvole che, ferme, attendevano il loro turno.» [8]

La seconda parte del romanzo volge quindi al termine, e Amoresano, solo alla fine, si rende conto che forse la colpa di tutto ciò sia effettivamente sua, non di una città inospitale e grigia che ha perso il colore di un tempo:

«Rimasto solo, pensai che forse il problema principale, da cui scaturiva tutto, era che non meritavo quella felicità. Non la meritavo perché non facevo nulla, dalla mattina alla sera. Pensai che tutto era già passato, anche noi, e che quindi potevo parlarne.» [9] La conclusione della propria riflessione è drammaticamente brutale: «[…] giurai che se l’avessi persa mi sarei ammazzato.» [10]

La terza e ultima parte del romanzo è molto breve. Sono passati dei mesi, l’amore è finito – era mai iniziato? – e se nelle prime due parti abbondano le domande e le riflessioni di un protagonista malinconico, ora quest’ultimo appare ormai arreso e sconfitto, con un solo ed unico – spietato ma inevitabile – obiettivo, che porterà a termine in quel mare tanto disprezzato ma che ora appare un’inevitabile culla blu. 

Ma la vera protagonista del romanzo è Napoli, una città su cui si posano molti sguardi: siano essi nostalgici – quelli del nonno di Amoresano – o polemici, crucciati e talvolta arresi come gli occhi del protagonista, o ancora più realistici, concreti e disincantati come quelli marroni di Nina, pronta ad abbandonare la città per inseguire i propri sogni, la delineazione cronotopica di Forgione spicca per originalità rappresentativa: è una Napoli grigia, piovosa, che ha perso il colore che in molta letteratura musica cinema ne costituiva elemento fondativo. 

Ma qual è il rapporto di Amoresano con la città? È sicuramente un rapporto segnato da un’irrimediabile distanza che non concede però un effettivo affrancamento. Se nello schizzo urbano predominano tonalità incazzate e polemiche, questa rabbia mista a sconfitta non permette però al protagonista di andarsene, di realizzarsi altrove, proprio perché, come si è detto, l’immobilità è intrinseca ad Amoresano e non alla città. Il protagonista di Forgione si sente distante e alla città e ai napoletani, e anche il calcio e la lingua, il dialetto di Napoli, non costituiscono più, come un passato, elementi di comunità e senso di appartenenza: 

«Gli dissi che Insigne era l’ultimo esponente di un calcio che andava scomparendo e che sì, era un giocatore ancora incompiuto, ma la sua incompiutezza rappresentava la napoletanità, e il fatto che i napoletani non capissero la sua napoletanità era un altro esempio della napoletanità stessa.» [11]

Il dialetto appare ormai insignificante, una banale cantilena svuotata di ogni colore:

«[…] pensai ch’ero saturo di queste cose, di queste parole vuote e pesanti. Pensai pure che buttate fuori con un accento diverso o in un’altra lingua forse le avrei trovate divertenti, ma che dette tra noi, sempre nello stesso modo, mi erano troppo vicine per non sentirmi compreso in quel naufragio.» [12]

Abbandonato a sé stesso e desideroso di scappare, Amoresano si legge nel personaggio di Massimo De Luca, protagonista di Ferito a morte di Raffaele La Capria, libro fondamentale per il protagonista di Napoli mon amour che rivede nel romanzo del ’61 il riflesso della propria esistenza: «Mi chiese di cosa parlasse Ferito a morte e le risposi che parlava dell’avere trent’anni e dell’avere trent’anni a Napoli, del voler scappare e del non riuscire a farlo». [12]

E poi, in uno splendido dialogo con La Capria, Amoresano ribadisce l’universalità delle tonalità immobili e melanconiche della vicenda di De Luca: 

«Gli dissi che la vicenda di Massimo De Luca, i suoi dubbi, il suo voler scappare e anche il suo non sentirsi pronto a farlo, come se un filo invisibile lo legasse alla sua vita precedente, era una vicenda universale in cui mi riconoscevo e che mi riconoscevo anche nel suo amore instabile e mai realmente compiuto.» [13]

Una Napoli, quella di La Capria, che appare immutata agli occhi di Amoresano: «Gli dissi che aveva così ben descritto Napoli che Napoli, forse per non rovinare il libro, non era più cambiata» [14].

Elemento paratestuale di grande rilevanza, il titolo che accampa in copertina – di colore blu con una foto in bianco e nero a ben evidenziare la commistione di colori che pervade le pagine di Forgione – è a dir poco perfetto: Napoli mon amour. Il titolo, lungi dall’apparire antifrastico o malinconicamente ironico, assume valore paradigmatico solo e soltanto attraverso una lettura complementare e contrastiva con il capolavoro Hiroshima mon amour (’59) di Alain Resnais, opera manifesto della Nouvelle Vague. Il film, che racconta la storia d’amore impossibile di un architetto giapponese e un’attrice francese, viene guardato proprio dai protagonisti in un cinema di Napoli: 

«L’uomo anziano […] spiegò che Hiroshima mon amour era un film sull’amore e sulla guerra, che nelle intenzioni dell’autore c’era la voglia di sottolineare l’incomunicabilità della guerra e delle situazioni amorose.» [15]

La visione del film segna profondamente Amoresano che, incapace di leggersi da solo, vive e assume pienezza e consapevolezza di sé, attraverso paragoni, siano essi letterari o come in questo caso cinematografici: «Mi scese una lacrima. Perché pensai che la guerra era finita e che io ero lui e lei era Nina ed eravamo entrambi sopravvissuti e la città era Napoli e noi c’eravamo ed eravamo vivi e avevamo entrambi una bella pelle. Eravamo assieme e pronti per la vita e felici.» [16] Agli occhi di Amoresano la città di Napoli appare delineata con tonalità melanconicamente grigie come il capolavoro di Alain Resnais che ha fatto scuola al cinema della Nouvelle Vague. Tornato a casa dopo la serata con Nina, il protagonista riscrive su di un foglio parte del discorso iniziale di Hiroshima mon amour: «Ho ancora tempo, te ne prego. Divorami. Deformami fino all’orrore». [17]

Il tempo, alla fine, sarà molto poco, e Amoresano decide sì di essere divorato, ma non da un amore, bensì da sé stesso, dalla sua immobilità, dal suo attendere qualcosa senza sapere, però, cosa, da una città grigia, riflesso di un animo ormai scialbamente sbiadito, arreso e sconfitto in un mare profondo di nostalgia verso qualcosa che non c’è mai stato, di rimpianto per il mai avvenuto. E il mare di Forgione no, neanche questa volta bagna Napoli.  

Alessandro Crea


[1] A. Forgione, Napoli mon amour, NNE, Milano 2018, p. 17.
[2] Ivi, p. 11
[3] Ivi, p.10
[4] Ivi, p. 68
[5] Ivi, p. 100
[6] Ivi, p. 133
[7] Ivi, p. 173
[8] Ivi, p. 175
[9] Ivi, p. 183
[10] Ivi, p. 185
[11] Ivi, p. 32
[12] Ivi, p. 109
[13] Ivi, p. 142
[14] Ibidem
[15] Ivi, p. 103
[16] Ivi, p. 104
[17] Ivi, p. 110


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