Urushi

Frammenti raccolti, visioni di ritorno e una buona dose di contraddizioni.

Questa rubrica nasce con un intento molto preciso e molto confuso. La base di partenza è una visione allo stesso tempo pessimista ed ottimista del cinema contemporaneo: da un lato le grandi e luccicanti produzioni superomistiche delle potenti case di produzione americane e delle ormai onnipresenti piattaforme (spesso radenti una discutibile propaganda per lo più filocapitalista); dall’altro un sottobosco di nuove idee, registi e progetti che fanno quotidiana resistenza al cliché del “ogni speranza è perduta”. A tutto ciò si aggiunge una tradizione cinematografica eterna nella sua ricchezza e profondità.

Naturalmente, i pericoli e i conflitti in atto nel cinema di oggi sono innegabili così come le implicazioni culturali e sociali di una produzione artistica ossessionata dal mito del singolo e della sua “specialità”. Persino in quei prodotti che pretenderebbero di valorizzare la diversità e riscattare l’emarginazione, aleggia spesso l’odore inconfondibile di un iper-individualismo adolescenziale ammantato da un buon package, quintessenza del consumismo liberista. Poco di tutto questo ha a che vedere tanto con fondamentali istanze sociali e civili, quanto con il cinema come linguaggio universale, come strumento di pensiero e contemplazione.

Da diversi anni, ad appesantire una situazione già parecchio intricata si è aggiunto lo stillicidio del nostro rapporto con il passato imposto dalla tirannia di sequel, prequel e remake. Il cinema (commerciale) degli ultimi anni non fa che riproporre in tutti i modi possibili quello che è già stato fatto e visto. Di questo passato, inoltre, sembra meriti di sopravvivere solo ciò cha ha già dimostrato di poter essere venduto. Come risultato finale, veniamo costantemente posti di fronte ad una lunga era di conservatorismo commerciale. Non viene più proposto un ripercorrere della storia (anche del cinema) come un confronto, un modo per comprendere. Lo sguardo verso il passato diventa reiterazione istantanea di quanto ha già dato soddisfazione. In definitiva, si parla di un’infinita produzione in serie, una catena di montaggio in grado di creare dipendenza.

Ciononostante, si diceva, un altro cinema è esistito, esiste e resiste. Il modesto scopo di questa rubrica non è certo quello di dare una risposta a tutto questo. Per ragioni di coerenza, all’istinto del superuomo si preferisce non cedere. Tuttavia, la semplice intenzione è quella di riattaccare assieme un po’ di frammenti, un po’ di passato e di presente come nell’arte giapponese di ricomporre la ceramica con la polvere d’oro e con la lacca ricavata dall’albero urushi. L’idea alla base di questa rubrica, quindi, è quella di ricercare legami e legacci fra il cinema di ieri e di oggi (sia quello più nascosto sia quello più noto). In breve, il metodo sarà quello del confronto fra almeno due o più film in uno o più articoli alla volta, evidenziando i punti in comune (e non) sotto il profilo estetico, tematico e/o narrativo.

Tutto questo lo si vuol fare lentamente e con pazienza, con pochi pezzi di ceramica alla volta. E ricordando che nonostante la decadenza, l’immobilismo e lo squallore, prima o poi, come diceva il sardonico Ian Malcolm (Jeff Goldblum) in Jurassic Park, la vita vince sempre.

Andrea Faraci

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