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Una strada da Bergman a Lynch.

La riflessione sul tempo, sulle relazioni umane e sulla vecchiaia permette di leggere in parallelo il capolavoro di Ingmar Bergman “Il posto delle fragole” e “Una storia vera” di David Lynch.

La strada ed il viaggio sono da sempre fonte di ispirazione per ogni forma d’arte. Il topos del viaggio lungo e ricco di incontri è presente fin dalle più remote radici della letteratura stessa. Fra tutti gli esempi nella storia del cinema, e fra tutte le connessioni e i rimandi possibili fra i diversi road movie mai fatti, un collegamento potrebbe tracciarsi fra Il posto delle fragole (1957) di Ingmar Bergman e Una storia vera (1999) di David Lynch.

Nel noto capolavoro di Bergman, Isak Borg (Victor Sjöström) è un anziano medico e professore dal carattere duro e schivo. Dovendo recarsi a Lund per ricevere un importante riconoscimento accademico, ed in seguito da un bizzarro e macabro sogno, Isak decide di viaggiare in macchina, contrariamente a quanto prestabilito. Nel viaggio viene accompagnato dalla nuora Marienne (Ingrid Thulin), il rapporto con la quale è avvelenato dalla freddezza e dalla severità dell’uomo, che non esita ad avere atteggiamenti alquanto intransigenti persino con il suo unico figlio.

Durante il viaggio i due incontrano vecchi pazienti di Isak, una coppia sposata corrosa dall’odio reciproco, tre giovani che li accompagneranno per tutto il viaggio e la terribile madre del protagonista. Ma è la sosta presso la vecchia casa estiva di Isak a costituire un momento cruciale nel percorso interiore di Isak. Qui l’anziano professore riesce infatti a immergersi in ricordi antichi e dolorosi da cui inizierà la profonda riflessione sul significato e sugli esiti della sua esistenza. Il suo viaggio nei ricordi e nella malinconia lo porta a riconsiderare drammaticamente la propria visione della vita e dei rapporti umani.

 Il film affronta con grande delicatezza e complessità il mistero della nostra concezione del tempo e del suo trascorrere attraverso i ricordi e la malinconia dovuta all’intorpidirsi della propria sensibilità, a cui l’isolamento e il cinismo dettati dal dolore possono portare. Il film insiste particolarmente sui rapporti familiari e amorosi, dapprima attraverso la figura di Isak, con il ricordo del pesante abbandono della cugina di cui era innamorato e che sposerà il fratello di lui, poi passando per la separazione della nuora da suo figlio. Significativi in merito i confronti con i tre giovani autostoppisti, impegnati in un conflittuale triangolo amoroso, e con la coppia sposata di mezza età con i loro crudeli litigi. La memoria della propria giovinezza, insieme alla serenità di una vita familiare e al tema fondamentale della redenzione, ritornano nel finale del film, a rimarcare la propria centralità come antidoti al male di vivere che affligge il protagonista.

A distanza di più di quarant’anni, con il suo Una storia vera, Lynch ci riporta in mezzo alle riflessioni bergmaniane attraverso il personaggio di Alvin Straight. Il titolo del film in lingua originale è proprio A Straight Story, che diventa un gioco di parole fra il nome del protagonista e la pluralità di significati della parola straight, fra cui “diritto”, come la strada, e “sincero”. Il film racconta, infatti, la commovente (e realmente accaduta) vicenda di Alvin Straight (Richard Farnsworth) che, non potendo guidare un’auto a causa della sua disabilità e non potendosi permettere le spese di un normale viaggio, decide di percorrere quasi quattrocento chilometri a bordo di un tagliaerba per andare a trovare il fratello Lyle (Harry Dean Stanton), reduce da un infarto, con il quale non parla da ben dieci anni.

Durante il suo viaggio, il saggio Alvin riesce a dare un apporto positivo alla vita delle persone che incontra, trasformando ogni nuova conoscenza in un’occasione di riflessione e meditazione, personale e condivisa allo stesso tempo. In questo suo ottavo lungometraggio, Lynch ci pone di fronte alla miseria e alle difficoltà che affliggono la vita delle classi più umili della provincia americana e che vanno in questo caso ad aggiungersi alla malinconia e agli stenti della vecchiaia. Si ritrovano ancora la riflessione sul tempo, il rimpianto ed il rimorso per le scelte passate e la volontà di redimersi, tutti elementi che perseguitano l’anziano protagonista, che fa della propria sofferenza e del proprio coraggio un esempio per le persone che lo circondano. Come nel film di Bergman, anche in A Straight Story il dolore dell’invecchiare è espresso con pari intensità e sempre attraverso la lente della memoria («la cosa peggiore dell’invecchiare è il ricordo di quando si era giovani», dice Alvin ad uno dei giovani incontrati sulla strada). I legami personali, ed in particolar modo familiari (non solo con il fratello ma anche con la figlia Rose), costituiscono, come evidente, un perno essenziale del film.

I due film sono inoltre accomunati dall’attenzione particolare al ruolo giocato dalla natura. Isak rivive i ricordi legati per l’appunto al posto dove raccoglieva le fragole e allo splendido paesaggio bucolico delle estati della sua infanzia, perfetta allegoria della serenità di quei giorni. Allo stesso modo il viaggio di Alvin è legato alla poetica contemplazione dei meravigliosi paesaggi americani, restituita dai lunghi e splendidi movimenti di macchina di Lynch.
E, infine, in una sorta di ritorno alla natura presentato come un ritorno all’essenziale si chiudono i due film: con la contemplazione del ricordo dei propri genitori immersi nel verde sulle sponde del lago per Isak e con lo sguardo commosso di Alvin e Lyle rivolto alle stelle, a suggellare la riconciliazione dei protagonisti con se stessi, con la propria storia e con tutto il circostante.

Andrea Faraci

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