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KLAATU, BARADA, NIKTO! L’UMANO E L’ALIENA PIETÀ

Dai classici degli anni ’50 fino ai film più recenti e innovativi, gli extraterrestri esplorano gli aspetti più importanti dell’animo umano. Talvolta, anche fino al punto in cui è proprio l’aliena pietà a farci scoprire un po’ più umani.

Illustrazione di Anna Nicolini

Uno dei più gettonati (e abusati) generi cinematografici è quello fantascientifico dove ad essere particolarmente inflazionato è proprio il topos della vita extraterrestre. Da sempre simulacro dell’alterità nell’immaginazione artistica, gli “alieni” ci mostrano spesso quale sia per l’appunto il reale e più comune approccio al rapporto fra l’umano e il diverso. In molti esempi della storia del cinema, infatti, nella figura degli extraterrestri si concentrano tutti gli elementi in cui l’uomo può o vorrebbe riconoscersi o che, più semplicemente, ci terrorizzano nel profondo. Il discorso potrebbe essere molto lungo e complesso e parecchi sarebbero gli esempi che richiederebbero un attento approfondimento. Ciò a cui si vuol dare risalto in questa sede sono da un lato la classica rappresentazione dell’invasore aggressivo, che ha brutalmente dominato (e ancora spesso ritorna) nell’immaginazione cinematografica e, dall’altro, le importanti fratture rappresentate da grandi e piccoli capolavori recenti e non.

Per quanto riguarda la rappresentazione ostile e aggressiva dell’alieno, gli esempi possibili sarebbero innumerevoli e molto differenti per particolarità e soprattutto qualità. In molti casi, l’extraterrestre (e quindi il diverso in generale) diventa il feticcio dell’atavica paura dell’ignoto. Si veda ad esempio Alien (Ridley Scott, 1979), dove lo Xenomorfo (nome dall’etimologia immediatamente evocativa) rappresenta tanto il terrore con cui l’uomo guarda all’abisso inconoscibile dello spazio quanto la fredda e selvaggia volontà di violenza da sempre insita nella natura umana. Così, in altri esempi, l’alieno colonizzatore e distruttore (altra riproposizione di un comportamento fondamentalmente umano) diventa l’unico elemento in grado di unire tutta la razza umana (esempio immediato è Indipendence day, Roland Emmerich, 1997), accarezzando l’idea che un cambiamento sia necessario solo a fronte di un imminente estinzione e che l’impulso autodistruttivo dell’uomo sia esorcizzabile solo con una diversa riproposizione della logica del nemico. [1]

In controtendenza con questa impostazione è Ultimatum alla Terra (Robert Wise, 1951), uno dei più apprezzati classici della fantascienza. L’alieno Klaatu, ambasciatore di una confederazione di altre civiltà aliene, arriva sulla Terra per parlare ai suoi rappresentati e avvertirli che se non saranno in grado di porre un freno all’aggressività e alla violenza insite nella nostra natura, la razza umana, troppo pericolosa per gli altri popoli della galassia, sarà distrutta. Sebbene Klaatu metta in pratica una vera e propria minaccia di sterminio, la logica è comunque ribaltata. Ciò che viene minacciato è l’applicarsi di un meccanismo di difesa di fronte a una civiltà che si mostra sempre più violenta e arrogante, e che diventa sempre più potente.

Circa otto anni dopo viene prodotto uno dei maggiori cult-movie di serie B: Plan 9 from outer space (Edward Wood, 1959). Considerato a lungo uno dei peggiori film mai realizzati, una severità di giudizio che il film condivide con il suo stesso regista il più famigerato fra i film di Wood offre comunque qualche piccolo spunto di riflessione. Al di là delle tortiere volanti appese a fili di nylon impossibili da non vedere, Plan 9 from outer space ci pone di fronte un’originale quanto bizzarra commistione fra sci-fi e horror (gli alieni decidono di attaccare i terrestri resuscitando e controllando i morti!) e, soprattutto, a un conflitto che nasce dall’incomunicabilità fra le due specie. Gli alieni cercano inizialmente un approccio pacifico al quale gli uomini rispondono con le cannonate. [2]

Nel 1968 esce nelle sale 2001: Odissea nello spazio. L’incommensurabile importanza del grande capolavoro di Stanley Kubrick meriterebbe certamente molto più spazio. Ciò che forse potrebbe interessare in questa sede è come il film riesca a dare all’entità aliena, che si cela dietro il segreto del monolite nero, una sfumatura quasi divina. Si rivela il segno dell’esistenza di una forza extraterrestre che stimola l’evoluzione umana e si ripresenta quando quest’ultima è ormai arrivata al suo apice. Il terrore connesso a questa entità aliena, mai mostrata, descritta o anche soltanto udita, è dovuto solo alle domande profonde e inquietanti che la sua esistenza suscita nei protagonisti.

Incontri ravvicinati del terzo tipo (Steven Spielberg, 1977), regala allo spettatore una prospettiva ancora diversa. L’extraterrestre è sempre attorniato da un alone di mistero, ma è allo stesso tempo oggetto di una curiosità tanto ossessiva quanto innocente. Lo sguardo dei due protagonisti, il semplice operaio Roy (Richard Dreyfuss) e lo scienziato Claude Lacombe (François Truffaut), [3] sembra quello di due bambini giocosi che inseguono le grandi luci e la loro bellissima musica. Aspetto centrale del film è proprio quello della comunicazione con i misteriosi visitatori, e ancora più importante è il mezzo individuato per questa comunicazione, ossia la musica. L’incontro ravvicinato del terzo tipo si svolge nei minuti finali del film e il dialogo fra le diverse forme di vita non è altro che una piccola sinfonia composta (diretta da un “regista”) in armonia da uomini e alieni. L’arte viene quindi presentata come mezzo di conoscenza, comprensione e pace desiderata quanto da un uomo, non per forza brutale, quanto da un extraterrestre portatore di doni e dialogo.

Arrival (Denis Villeneuve, 2016) si inserisce sulla stessa falsariga, riprendendo anche alcuni degli spunti offerti dal classico di Spielberg. Dopo l’improvviso ma pacifico atterraggio di alcune astronavi aliene sulla terra, alla linguista Louise Banks (Amy Adams) è assegnato l’incarico, insieme ad altri esperti, di cercare una forma di comunicazione con gli alieni. È così che Louise, studiando ossessivamente la lingua degli “eptapodi” (così vengono chiamate le creature) sente cambiare la propria mente e, in particolare, la sua percezione del tempo, sino a percepire lo stesso come una ciclica connessione fra passato, presente e futuro. [4] Proprio sull’incomunicabilità iniziale gioca la tensione del film, a causa di una scorretta traduzione (“offrire dono” a “offrire arma”). Ancora una volta l’incontro con un’altra civiltà diventa un’occasione di reciproca comprensione, di riflessione sul dramma dell’incomunicabilità. Alla comunicazione e al rapporto con l’altro si riconnette il nostro modo di vivere il tempo, il cambiamento e il dolore.

Questa piccolissima e modesta sintesi all’interno di una galassia molto ampia (so bene che sono tanti e importanti i film non citati) potrebbe già mostrare come un diverso approccio alla diversità, basato su un principi di tolleranza e ricerca dell’altro, sia oggi molto più presente che in passato. Allo stesso tempo, tuttavia, ci dimostra anche come un certo tipo di sensibilità non sia necessariamente legata ai tempi, vedendo anche in una cinematografia precedente i semi delle attuali tendenze. Ma quello che potrebbe rivelarsi ancora più stimolante, se non a tratti addirittura commovente, è come si possa arrivare a una rilettura della stessa visione dell’uomo attraverso la compassione dimostrata dagli alieni portatori di doni. “Klaatu, Barada, Nikto!”, si dice nel classico di Wise per bloccare l’azione distruttrice del robot Gort, una seconda possibilità concessa all’uomo dall’aliena pietà.

Andrea Faraci


[1] Impossibile dilungarsi ulteriormente sugli altri film appena accennati, come Starship Troopers (Paul Verhoeven, 1997), dove si mostra proprio il gioco possibile fra la retorica militarista legata agli insetti alieni, presentati come aggressori, e utile a celare invece il reale intento colonialista dell’uomo.
[2] Credo sia interessante notare che il tema della diversità, e della reazione ostile a quest’ultima, non è estraneo a Wood, autore, fra gli altri, del famoso Glen or Glenda (1953).
[3] Il fatto che il personaggio dello scienziato impegnato a coordinare le operazioni di studio, ricerca e comunicazione con gli alieni sia interpretato da un regista offre una serie di spunti e significati più che evidenti.
[4] L’idea si basa sulla cosiddetta “Ipotesi di Sapir-Whorf” (o “ipotesi della relatività linguistica”), secondo la quale lo studio di una lingua riuscirebbe a influenzare in modo profondo lo sviluppo cognitivo e il modo di pensare di un soggetto.

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