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TRENO

I polsini della camicia blu oltremare accompagnano i polsi olivastri, mani lunghe scorrono le pagine di un bel volume, elegante, blu con le rifiniture dorate.
Non riesco a leggere il titolo, ma osservo la narrazione svilupparsi sul volto che ho di fronte. Mi piace proprio frugare nella vita degli altri, soprattutto se sono uomini piacenti. Avrà pochi anni più di me.
Mi sorride.
Ricambio.
Lo osservo e mi invento la sua vita, la cucio sulla fossetta della guancia sinistra e al suo sorriso aperto.
Prendo le misure delle sue mani lunghe per fantasticare sulla loro potenziale proporzione con la striscia di nei che cosparge la mia scapola sinistra.
Raccolgo, minuziosa, la pacatezza dei suoi gesti per raccontarmi dei suoi genitori, delle buone scuole che ha frequentato, della sua libreria che forse è la sola cosa poco ordinata della sua vita.
Il treno frena fa una frenata brusca. Il libro scivola, leggo “Il barone rampante” Italo Calvino. Lui lo raccoglie.
Alza lo sguardo.
Sorride.
Ricambio.
Mi chiedo quando si deciderà a parlarmi.
Che cliché enorme questa situazione. Sono assurdamente banale. Sembra che possa sentire scricchiolare i miei pensieri e mi sorride. Lo guardo e mi volto.
Chiacchiero con le ragazze sedute nei posti accanto a me dell’università, parliamo dei treni in ritardo, della Liguria. Scendono, le saluto. Tre fermate e anche io sarò arrivata a casa.
Ritorno ad osservarlo.
Alza gli occhi.
Io li abbasso.
So che sta sorridendo.
Lo vedo frugare nel portafoglio.
Tira fuori un foglietto di carta intestata. Cristo, la carta intestata, se hai cinquant’anni in realtà avresti dovuto avvisarmi. Immagino che sia uno di quei tipi che rispondono allo stereotipo di borghese ben vestito, sarà un futuro avvocato in una famiglia altolocata piena di avvocati e carta intestata.
Tira fuori una bic mordicchiata e scrive “ 33657992”.
Quanto perdono poesia le storie quando diventano vita. Mi porge il biglietto. Io gli sorrido e allungo la mano, lo ritira e mi guarda, sornione: “Solo se sei un po’ Viola anche tu”. Stento a capire, ma poi collego il libro che ci osserva dal tavolino del treno alle parole che mi sbattono in faccia insieme al suo odore di dopobarba un po’ sbiadito. Deve essere lo stesso di mio padre. Viola del “barone rampante”.
Io rispondo che ci posso provare, ma che comunque “piacere, il mio nome è Anna.”
Gli stringo la mano, forse troppo forte, ogni dannata volta.
“Ciao Anna, a presto”.
“Spero che tu sappia far altro oltre che sorridere” dico.
“So anche lasciare bigliettini con il mio numero di telefono.” Mi sorride, ancora.
Lo guardo allontanarsi verso le porte del treno.
Ha una bella figura e una bella storia che ho inventato su di lui, potrei chiamarlo.
Mi preparo a scendere, quando lo faccio, cammino sbilanciata, con il peso della valigia tutto da un lato. Probabilmente sono, in questo momento, quanto di meno elegante esista al mondo, temo di essere anche piuttosto goffa e nemmeno particolarmente bella.
Quanto perdo poesia quando smetto di immaginarmi e mi guardo vivere.
Un ragazzo sulla ventina agita la mano destra, mi ricorda un cane che scodinzola. Si presuppone che io lo ami, stiamo insieme da tre mesi. Continua ad agitare la mano, scomparso nella sua felpa grigia.
Quanto sono brutte, alle volte, le persone quando si sentono quotidiane.
Guardo la mano che si agita e i capelli ricci che scodinzolano. Si presuppone che lo ami. Guardo la mia mano.
Carta intestata “Alessandro Duilio Castelli”.
Mi infilo il biglietto nelle tasche dei jeans. Cammino fino a Cosimo, quando arrivo di fronte a lui lo bacio sulle labbra. Penso che le mie tasche dei jeans, Cosimo, lo hanno già un po’ tradito mentre si strusciano sulle sinuosità di Alessandro Duilio Castelli.
Penso che in realtà un po’ anche io, anche senza strusciarmi.

Racconto di Angela Macheda

Editor: Giorgia Vullo


L’autrice

Angela è nata il 10 maggio del 1999 in Liguria.
Da sempre appassionata di letteratura italiana e straniera.
Attualmente frequenta la facoltà di lettere moderne presso l’università Cattolica del Sacro Cuore.

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