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UNA STAGIONE AD EST

Opera di Silvia Farina.
Brano scelto da Mattia Sonzogni, editor musicale.

Avevamo pensato di trascorrerlo al caldo, l’inverno. Lei, poi, doveva aver pensato a qualcos’altro se infine era uscito fuori che l’unica valigia sul letto era la mia e le chiavi di casa erano sue, i dischi, i libri, guarda, lasciali pure qui finché non ti sistemi.
Mentre andavo verso la metro e il telefono di mio fratello, il manager, faceva il tu tu tu dell’occupato al consanguineo suo, che sono io, l’artista, il sognatore, che non è altro che un modo passivo aggressivo che usa la società per dire fallito, compresi i tuoi congiunti, ho pensato, ma se andassi lo stesso, andassi senza lei, solo l’io più io di me medesimo a riscoprirsi? Non fa così la gente che sbrocca, cambia vita, fancula le delusioni? Intanto, in questo emisfero, le foglie erano spazzate dal vento gelido di Milano e da un portiere instancabile. È così che ho deciso, che sono andato ad est.
A Bangkok il vento era caldo e umido, pesante, e i tetti dei templi spioventi e rossi. Tintinnii giungevano dall’aria che si scontrava con le campane buddiste del Wat Pho. Lì ho incontrato Luca.
– Sei venuto qui a pensare? – mi ha chiesto sedendosi accanto a me e a due sinistri leoni di pietra che facevano la guardia al passato. Ho alzato le spalle.
– Vieni, ti offro un caffè. – Il caffè, poi, è diventato una birra due ore più tardi, evolutasi in un Margarita a ko San Road, per finire gin in un locale a forma d’uovo. Giuro, a forma d’uovo. Ripieno di gabbie, ripiene di ballerine. La notte si è fatta alba sul Chao Phraya che scorreva lento guardandoci attraverso il fumo delle nostre sigarette, l’alba notte, la notte giorno. Ma stavolta noi eravamo già in Vietnam. Sistemati sulla spiaggia con altri fricchettoni. C’erano le palme, la birra ghiacciata grazie al generatore, le capanne madide di caldo, amiche generose, e granchi giganti e rossi che l’argentino Andreas pescava all’alba con le mani, sorprendendoli vittime delle maree infingarde.
Non era male in fondo la vita. Quando ci veniva voglia la sera andavamo a Hoi An in bicicletta e mangiavamo piatti succulenti, compravamo riso e spezie e tutto quel che serviva usando una cassa comune, bevevamo birra e liquori che spaccavano il fegato e che dopo piantavano una scia chimica nell’alito. Lasciavamo ondeggiare barchette illuminate nel fiume che divide la città e ascoltavamo i canti delle riffe, ritmici e gutturali nella notte stellata e ferma, intonati dalle donne. Le case basse, i cortili coloniali dove io e Anna avevamo preso a baciarci. Tanto, che il pensiero dell’altra, della stronza milanese, s’andava affievolendo, e così tutte quelle altre cose così umane, l’insicurezza, la gelosia, il pensiero della dimenticanza, di essere sostituiti come una macchina vecchia con una nuova, più aitante, più veloce, con migliori prestazioni e dimensioni maggiori. Fanculo.
Anna era l’hippie più bella, capelli neri ondulati e occhi di gitana. Era libera, disinibita, sicura, e il suo sorriso, nella penombra tremolante, riempiva la capanna dove ci rotolavamo esausti, sudati, soddisfatti di un senso pieno che la vita finalmente aveva acquisito.
Forse avevo fatto anche troppo presto a licenziarmi, ma mi ero ripetuto a turbo il solito mantra di quei giorni, fanculo tutto, la fila sulla banchina della metro, i risvegli meccanici, i piedi sullo scendiletto alla stessa ora la mattina, alla stessa ora la sera; il lavoro arido, sempre uguale, ogni giorno, ogni mese, ogni anno che volava via, lasciando segni intorno agli occhi. Vedi? Lo sapevo, mi andavo dunque dicendo, c’era qualcosa che non andava mentre ipnotizzato dai doveri me ne andavo in giro per Milano, la spesa, le bollette, le riunioni di condominio, le multe, l’idraulico, la facciata da rifare, la scala non a norma, la promozione da sudare. Qui l’unica cosa da sudare era il sesso e le giornate colme, diverse, vive. Rotolare sulla sabbia con Anna, nuotare, pescare, passare le notti a Hoi An.
Nel frattempo, stava arrivando la stagione dei monsoni e ci dovevamo spostare, serviva grana, diceva Luca, e Anna s’innervosiva alzandosi ansiosa dalle riunioni in circolo seduti. Mina faceva le sue collanine ma non le vendeva più, i turisti se ne erano andati dandosi il cambio con la pioggia che a grandi chicchi cadeva e scorreva sulle felci giganti, inondando le risaie e le vecchie dai sorrisi sdentati. Anche io avevo finito i risparmi e il bancomat in città aveva risputato con malumore, facendo una pernacchia, il mio ultimo legame con l’ovest, la carta di credito.
– Dobbiamo farlo. – aveva detto Andreas e Luca aveva annuito. Alla domanda – Volontari per andare? – la nuova versione di me, aitante, coraggiosa, maschia, si era fatta avanti. Subito dopo Luca.
È così che mi sono ritrovato nella jungla, a comprare oppio per rivenderlo e fumarlo, sulla piattaforma di una palafitta costruita su un albero millenario, con un cinese schizzato e una scimmietta sempre incazzata che quello si portava dietro al guinzaglio e che ci soffiava dalla sua spalla come un gatto isterico. Le trattative non sono andate male, il cinese alla fine era magnanimo e rideva sempre. Il resto del tempo dormiva.
Anna l’ho salutata alla stazione del primo bus che tortuoso ci ha infine riportato a Bangkok. Stavolta lì, oltre all’aria umida, mi aveva accolto il cagotto. Ma non era stata l’unica cosa ad accogliermi. Al bagno della stazione c’erano anche i poliziotti. E i manganelli. Luca ha detto solo – Mi dispiace amico. – articolando con le labbra da lontano, e non l’ho più rivisto.
Adesso è l’ora d’aria e giro in tondo appiccicato ad altri corpi, sono parte di una scia umana calibrata sul rumore delle dita dei piedi sulla pietra. Siamo in tanti e spazio non ce n’è. Ogni tanto scompare qualcuno, ma non è che esca, dicono. Dicono che il nemico non sono le botte e la polizia incazzata, il nemico è la setticemia, il cibo con i vermi, il riso che sa di muffa, il freddo rigido anche se siamo ai tropici e i metri quadri utili al corpo affinché voltandosi non schiacci il vicino. Intanto giro. Chissà che direbbe la stronza.

Racconto di Silvia Penso
Editing di Martina Costanz
o e Martina Marrone


L’autore

Silvia Penso è nata e vive a Roma. Ha studiato letteratura e cinema all’università e lavorato alcuni anni per piccole case editrici. Suoi racconti sono usciti per Lunario, Smezziamo, Morel, Rivista Blam, Risme, Offline, Birò, Quaerere. Inoltre, collabora con le ultime due come editor e autrice. Ama scrivere e leggere, poi ci sono gli amici, la musica, i viaggi.

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