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SUL FINIRE DEL LAGO

Opera di Silvia Farina

Un brano per accompagnare la lettura:

Brano scelto da Mattia Sonzogni, editor musicale

Dedicato a Mirko

«E allora mi sono accasciato, Nick. Mi sono accasciato come chi è rimasto in mezzo al deserto troppo a lungo e non beve da giorni».
Sono insieme ad Andrew. Passeggiamo di pomeriggio per il parco che costeggia il lago, e non fa freddo e non è neanche caldo, per cui camminare è pure rilassante.
«Mi sono buttato a terra, in ginocchio, come un mezzo morto. Avevo gli occhi da pesce lesso, puntati dritti all’orizzonte. Non saranno state più tardi delle quattro di pomeriggio. Faceva un caldo infernale, puoi immaginare» racconta.
Delle zanzare che incontriamo camminando non m’importa granché, e nemmeno dei moscerini, di quelli che si ammassano come sfere, precisi ad altezza occhi, e allora ci passi attraverso perché da lontano non si vedono e li riconosci soltanto quando ci sei dentro. Ti avvolgono come quei vecchi caschi da sommozzatore che si vedono nei film degli anni Sessanta o Settanta. Ma non è importante, non ci danno fastidio perché siamo presi dai nostri discorsi.
«Preso da tutto quello che mi avevano fatto bere, mi accascio, guardo il mare inebetito, con la sabbia che copriva quasi mezze cosce da quanto ero sprofondato, e mi casca il mento sul petto. Ma io continuo a guardare il mare. E poi ecco che vomito. Vomito quasi i miei stessi organi. Rimango come Dio solo sa cosa a vomitarmi addosso e continuo a fissare l’acqua» dice. Mi guarda e ride.
Andrew è un uomo alto, ha pochi capelli sul biondo, alcuni ormai sbiancati ai lati, con due grandi occhi azzurri che quando ti guardano sembrano spazzar via il male che ci osserva da lontano e ci aspetta al di là del varco. Veste bermuda militari, di quelli con tasche a bottone sulle cosce, e queste sono occupate da una busta di tabacco e filtri larghi e cartine lunghe e bianche, che quando le lecchi si rizzano anche le radici dei capelli. Cammina con andatura militaresca su un paio d’infradito in tessuto di jeans. Dalla canotta nera si scorge la pelle bianca a contrasto con l’abbronzatura sotto al collo, lì dove disegna un semicerchio, e su spalle e braccia. Stessa cosa per i bermuda, dal ginocchio in giù.
Poi riprende a parlare. «Da lì non ricordo altro. Mi sono svegliato che ero su una sdraio, poco distante dal mare, sotto all’ombrellone. Non so di chi fosse perché io non l’avevo noleggiato e non l’avevo certo portato con me. E mi sento chiamare da quella brava donna ch’è Beverly. Mi volto e la guardo. Che occhi ha. Verdi come le colline in maggio. Te li ricordi, Nick?»
«Li ricordo, Andrew» rispondo, provando a schivare l’ennesimo sciame di moscerini. Il lago ci accompagna e il sentiero è morbido sotto i nostri piedi, sembra che qualcosa ci spinga senza il minimo sforzo.
«Insomma, guardo ‘sti due occhi immensi, pieni di amore e compassione per un ubriacone come me, e niente. Di nuovo nero totale» ride ancora. La sua risata mi trascina. Impossibile resistere quando racconta storie così.
«La peggior sbronza che abbia mai preso, Nick. Non stare dietro a quello che ti dicono. Non è vero che devi bere per forza tutto quello che vogliono tu assaggi. Sono stronzate. Lasciali fare. E se hai dubbi ricordati come sono morto in spiaggia e poi risorto».
Ci fermiamo. Siamo arrivati. Prendiamo a sinistra e attraversiamo il ponte. È stretto, stiamo uno avanti e uno dietro, ed è in legno, e fra le tavole s’intravede lo specchio d’acqua sotto di noi che riflette di un azzurro cristallino che sfuma sullo smeraldo. E se osservi con cura puoi scoprire qualche trota e, se sei fortunato credo, persino lucci, ma non so dirlo con certezza. Stanno nei laghi dolci, e quello è dolce, e penso che qualcuno li abbia visti. Sicuro qualcuno li ha visti. Ma io e Andrew siamo arrivati prima che abbia trovato qualche luccio anche io, perché alla fine siamo stati presi prima del previsto. Succede questo e così fa con tutti, e allora dobbiamo fugare la morte dai nostri pensieri, prima che lei non ritorni, si capisce.
In mezzo all’isola c’è una villetta, è su tre piani e tutta a vetri. Le pareti della veranda, che si estende ben oltre il perimetro dell’abitazione di almeno cinquanta metri all’aperto, sono bianche ed è bianco pure il recinto in legno che si apre sulle scalette che portano all’ingresso, e una volta saliti suoniamo il campanello.
«Sembra un bel posto qui» dice Andrew. Io annuisco e, quando le porte si aprono, ci troviamo davanti una hall inaspettata. Da fuori, essendo ben visibile l’interno, ci è sembrata più piccola, ma dentro, non so spiegare, è immensa e affollata. È piena di persone. Io e Andrew ci scambiamo un’occhiata e, sbigottiti, muoviamo qualche passo.
Poi attacco: «Dove siamo finiti?», ma non mi risponde. È preso a guardare tutto il resto. Allora proseguo e punto uno che lavora lì. Lo riconosco dalla divisa nera coi bottoni dorati e dal cappello. Prima che io riesca ad aprire bocca, però, questo mi sorride e mi dice di accomodarmi e mi indica uno spazietto in mezzo ad alcune colonne tagliate poco più che a metà, che reggono vasi e fiori, e aggiunge che presto si occuperà di noi. Mi chiedo a chi si riferisca, Andrew non è ancora tornato, ma vedo che il concierge sorride e annuisce ad alcune persone sedute proprio dove dobbiamo dirigerci. Due poltrone sono libere.
«Lì?» chiede Andrew col dito puntato verso di loro.
«A quanto pare» rispondo incamminandoci, e raggiungiamo una donna e un signore anziano, che tiene in braccio una bambina.
Quando ci accomodiamo, salutiamo con un cenno. Il signore gioca con la piccola, che ride e ha boccoli voluminosi e ramati, che le cadono sulle spalle e rimbalzano ogni volta che molleggia sulla schiena, divertita dalle smorfie di quello che credo sia il nonno. Sicuro è il nonno. Si capisce.
«Salve» ci dice poi il vecchio. Ha mani rugose e grosse e gli manca un dito a sinistra, mentre sulle altre sporgono biancastre cicatrici che sembrano figlie dello stesso taglio.
«Salve» dice Andrew sistemandosi comodo.
«Buongiorno» faccio io.
La donna è assorta nei suoi pensieri, e sono pensieri cupi perché ha lo sguardo di chi attende con ansia qualcosa, quasi lacrimano i suoi occhi arrossati e gonfi.
«Tutto bene, signorina?»
Io guardo Andrew perplesso, ma è fatto così lui, ed è un uomo buono che si preoccupa sinceramente per chiunque.
Lei non risponde e inizia a singhiozzare. Il nonno gioca con la piccola e lei si diverte e ride, soprattutto quando lui la fa cadere in mezzo alle ginocchia e poi la riprende prima che tocchi terra. E allora si entusiasma e chiede di farlo ancora una volta. Mi domando se il vecchio sia stanco perché continua senza sosta, e ogni volta la riprende a sempre meno centimetri da terra. Avrà almeno ottant’anni, non capisco con quali forze riesca. Poi mi torna in mente la passeggiata.
«… siete arrivati da poco, non è così?» ci sorprende la donna, che fino a un attimo fa sembrava non essersi accorta della nostra presenza.
«Avete… avete visto… c-c-c’era qualcuno insieme a voi?» e crolla in un pianto disperato. Singhiozza, allora Andrew si avvicina, si china davanti alle sue ginocchia e le carezza un braccio cercando di consolarla. Mi alzo di scatto e cerco in tutte le direzioni verso una reception, perché ha bisogno di fazzoletti e voglio portargliene qualcuno, ma la bambina mi precede e ne tira fuori uno dalla tasca della giacca del vecchio.
«Grazie» sospira la donna. Viene travolta da un’altra ondata e riversa sul fazzoletto lacrime dense e salate.
«È da molto che aspettate?» domando al vecchio.
Riprendendo al volo la bimba mi rivolge un sorriso e annuisce col capo. Andrew, nel frattempo, torna al suo posto, dà un’occhiata fuori e s’accorge che il sole sta calando, poi il vecchio inizia.
«Chi state aspettando?»
«Siamo venuti qui da soli» rispondo.
«Beverly» Andrew dice, «Beverly dovrebbe arrivare».
«Lei chi aspetta?» chiedo al vecchio, lanciando uno sguardo repentino alla donna per vedere adesso come sta. Piange ancora e fra i singhiozzi avverto un nome.
«Nessuno in particolare. Non mi dispiace qui» dice.
«È un bel posto in effetti. Ma anche voi avete avuto l’impressione che da fuori fosse più piccolo?» domanda Andrew.
«Lo fa, è vero» sorride il vecchio riprendendo la piccola al volo per l’ennesima volta, quando Andrew gli chiede se non si fosse stancato.
«Eh, ragazzo mio. Ho ancora tante energie su queste spalle».
Così mi alzo, mi sgranchisco e volto lo sguardo a destra e a sinistra. Mi accorgo che ci sono molte più persone a sedere di quante ne avessi notate appena entrato, e le porte d’ingresso non la smettono di aprirsi e chiudersi, ed entrano uomini e donne e bambini e vecchi, e alcuni vengono assaliti da quelli dentro, che si gettano loro addosso abbracciandoli e stringendoli a sé, e io li guardo e riconosco fra loro famiglie che sembrano non vedersi da una vita intera.
«Sully» sento dire. «Sto aspettando Sully, che però non arriva».
È la donna, che ora ha smesso di piangere e sta parlando con Andrew. Lui cerca di consolarla con qualche frase fatta ma, d’altronde, che si può dire a una sconosciuta che si mostra a pezzi come se le avessero frantumato il cuore e disperso l’anima?
«Nick» dice poi Andrew, «è Beverly quella?» indica l’ingresso.
Mi volto e osservo. Sembra proprio Beverly, così gli dico di andare da lei. Lui si alza, mi rivolge un sorriso e mi abbraccia e mi bacia su ciascuna guancia. Poi, ricongiunto, viene scortato dal concierge e lo vedo sparire fra la folla. Lo seguo con lo sguardo e, quando torno verso il vecchio, dalle vetrate vengo accecato dall’alba.
«E tu chi aspetti, ragazzo?» mi chiede. La bambina ora si sistema sulla poltrona dove stava Andrew.
«È una brava bambina, sai? E Sully, mia cara, non disperare, arriverà. Perché non andiamo un po’ là fuori? È una bella giornata, e se abbiamo fortuna possiamo scorgere Sully e i genitori della piccola arrivare prima di sera. E se non è stasera allora sarà domani. E se non sarà domani allora sarà il giorno a seguire, perché tutti ci ricongiungiamo. Non è così, ragazzo? Tu chi stai aspettando?» dice il vecchio.
La donna ha smesso di piangere e si alza, prende le sue cose, che sono soltanto uno scialle e un paio di grossi occhiali neri che le danno l’aria di una diva del cinema, e si avvicina materna alla bambina.
«Quando arrivano mamma e papà e Sully ci prendiamo un gelato, Lily?».
«Certo, Rory. Ci prendiamo un gelato».
La bambina saltella verso il corridoio che porta alla veranda, mano nella mano con la donna. Io resto con il vecchio. Attendo. Fuori è di nuovo buio e poi di nuovo giorno.

Lily e Rory non rientrarono per molte altre albe e molti altri tramonti. Prima riapparve la bimba in braccio alla mamma e sedettero con noi per un po’. Così le raggiunse il padre. Vedemmo anche passare Lily insieme a Sully, un bel pastore australiano dal manto grigio e bianco a chiazze e con gli occhi di colori diversi e, ora che le era tornato il sorriso, Lily era veramente splendida. La salutai con un cenno del capo e lei ricambiò. Sully abbaiò con la lingua di fuori.
Così, rimasi nella hall la maggior parte del tempo, che poi il tempo non aveva importanza. Con me e il vecchio sedettero tante persone. Una volta Rudy, il concierge, scortò due fratellini gemelli, e passammo il tempo insieme finchè tutti non si ricongiunsero e io scoprii molte cose sul vecchio. Mi disse che era un falegname e che aveva vissuto da solo in mezzo al niente e che aveva amato una certa Elizabeth.
Sosteneva di averla ritrovata una volta, poco prima di Natale, dopo essere caduto e aver raccolto da terra una penna e un pezzo di carta che non ho capito cos’avessero di speciale, ma che gli avevano permesso di rivedere la sua Elizabeth, continuava a ripetere, solo per pochi momenti e poi si era risvegliato di nuovo vecchio ed era tornato alla solita vita. Fu una delle tante storie che mi raccontò, ma quella che più mi incuriosì.
«Perché non arriva anche lei?» domandai un giorno. Il vecchio leggeva un giornale.
«È successo molto tempo fa» rispose lui. Mi scrutò serioso abbassando leggermente le pagine, rimase un po’ in silenzio e mi chiese di fare due passi in veranda. Poi spiegò.
«Non fu lei ad arrivare, ma io. Lei se ne andò ch’era molto giovane, troppo a dire il vero, uccisa dalla malattia ma non sconfitta. Dovresti saperlo. Quando ci ritrovammo mi riconobbe subito, perché l’aspetto qui non conta niente, ma dopo interminabili momenti di gioia mi resi conto della sua sofferenza. Mi aveva atteso così a lungo che mi chiedevo quanto dolore avesse provato, quanto le avesse fatto male all’anima. Rudy venne verso di noi e ci indicò l’ascensore, ma c’era qualcosa dentro di me che m’impedì di prenderlo».
«Hai deciso tu di restare» lo interruppi.
«Sì, Nick. Ho deciso io di restare per quelli come te, o come quei ragazzi che non hanno nessuno da aspettare. Conosco bene quello sguardo. Penetra e non ti molla. Ora Elizabeth sta bene, perché varcata l’ultima soglia non c’è più spazio per il dolore» disse il vecchio.
Rimasi in silenzio. Guardavo il lago. Rifletteva tutti i colori e poi scorsi un luccio. Un luccio enorme. Capii e poi dissi: «Va’ da Elizabeth, Ernest. Ci penso io adesso. Tu va’».

Racconto di Filippo Castiglioni
Editing di Martina Costanzo


L’autore

Nato e cresciuto a Firenze, Filippo da appena ragazzino passa molto tempo con Stefano Rossi, proprietario di una bancherella di libri usati in pieno centro storico.
È grazie a lui che inizia a scrivere e trae da ciò che percepisce intorno a sé storie di vita di tutti i giorni, racconti di personaggi sì inventati, ma che si collocano perfettamente nella realtà contro cui ognuno di noi si scontra.
Commerciale di professione, nel febbraio 2023 pubblica la sua prima raccolta di racconti edita da Edizione Dialoghi.

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