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NON POSSO LASCIARLI ENTRARE

Opera di Silvia Farina

Un brano per accompagnare la lettura:

Scelto da Mattia Sonzogni, editor musicale

È iniziata così, improvvisamente. Non ricordo con precisione quando o come: un giorno, senza alcun preavviso, mi sono reso conto di sostare sul ciglio della porta, terrorizzato all’idea di incontrare i vicini.
Non trovo alcuna spiegazione razionale. Dentro di me è come se si fosse propagata un’infezione, una pustola suppurante che ha sabotato parte delle mie facoltà cognitive.
Resto lì, spaventato come chi si sveglia di soprassalto nel cuore della notte, a origliare dietro la porta, ultimo baluardo contro le minacce esterne. Ascolto con meticolosa attenzione ogni suono proveniente dalle scale: il portone che si apre e chiude con un tonfo, passi rimbombanti di stivali da lavoratore o le stilettate secche e pungenti dei tacchi a spillo della vicina avvocata. Questa malattia ha fatto sì che sviluppassi come un’antenna filiforme da insetto, che mi ha reso ipersensibile a qualsiasi segnale indicante la presenza di essere viventi all’esterno del mio appartamento.
Di recente ho brevettato un nuovo metodo. Non posso permettermi di fare affidamento solo sull’udito, devo servirmi anche della vista. La mattina mi acquatto davanti alla porta come uno scassinatore di serrature e abbasso tutte le tapparelle di casa restando nell’oscurità. Aguzzo gli occhi, mi piego sulle ginocchia e analizzo con attenzione l’eventuale presenza di riflessi di luce che filtrano da sotto la porta. E per non lasciare nulla al caso, grazie a una sottilissima fessura – piccolo difetto di fabbricazione che ho scovato tra l’anta e la guarnizioni – sono riuscito anche a crearmi il mio spioncino sul mondo esterno. Ora riesco a stabilire con buona attendibilità se le luci condominiali sono accese oppure spente.
Ma per quanto mi sforzi non riesco mai a fregarli. Lì fuori c’è qualcuno, perennemente, a ogni ora. Una notte ho deciso di agire d’astuzia e prenderli per sfinimento. Appostato con ostinazione da avvoltoio, ho aspettato lo scoccare delle prime ore del mattino. Alle tre era tutto pronto; il mio respiro affilato come una lama e il ronzio del frigo erano gli unici suoni di quella notte atrofizzata. Con entrambe le mani ho stretto con impeto le chiavi e le ho infilate nella toppa. Primo, secondo e terzo scatto: una eco metallica si è propagata in tutto l’appartamento, come il fragore delle onde che turba il sonno del guardiano di un faro.
Senza esitare ho provato ad aprire la porta, ma una forza si è opposta impedendomi di spostarla anche solo di un centimetro. Qualcosa, o qualcuno, aveva bloccato la maniglia facendo resistenza dall’altro lato della parete. Il panico mi si è arrampicato dalle viscere sino in gola, avviluppante e acre come un conato. Ero in penombra, prigioniero in casa mia con un qualcosa che ostruiva l’unica via di fuga possibile. L’interruttore della luce mi ha salvato da un urlo nervoso che stava per trafiggermi la trachea. Ho preso fiato per un secondo, poi ho appoggiato un orecchio sulla porta nel tentativo di capire se ci fosse un tormentatore notturno che mi stava tenendo in scacco. Torvo come le più remote superstizioni, un crepitio seguito da un funesto grattare, un suono roco, non descrivibile, qualcosa di innaturale era in atto al di là del muro: una presenza stava come raschiando lo stipite in alluminio dando vita a un messaggio logico, ma di cui ignoravo il significato recondito. Soltanto con l’ausilio provvidenziale del sorgere del sole sono riuscito ad aprire la porta. Non ho riscontrato alcun segno di manomissione o danneggiamento.
Successivamente ho avuto l’ardire di sporgermi oltre lo stipite, ma non c’è stato nemmeno il tempo di sentire sulla pelle la freschezza dell’aria non viziata del mondo esterno: un frastuono proveniente dai piani più alti mi ha spinto a rintanarmi nuovamente; rumore di passi concitati, convulsi, furibondi, come se al piano superiore vivesse una famiglia di bruchi umanoidi.
Credo di essere sul punto di gettare la spugna. Quello che può essere interpretato come il semplice vivacchiare quotidiano, una mamma che accompagna i figli di diverse età a scuola, l’elettricista del secondo piano che esce e rincasa in base ai suoi appuntamenti, i pensionati che si recano al supermercato in tarda mattinata, si è trasformato in un motivo di confinamento asfissiante. Forse ho perso così, di netto, il senno. Già. Oppure… oppure questa mia verruca neurologica ha un’origine progettuale. Un piano congegnato con precisione, in concerto tra tutti gli inquilini, allo scopo di rinchiudermi qui dentro.
Poi ecco, sta succedendo, non c’è più tempo per i dubbi. Non è più necessario escogitare sistemi per evitare il contatto con i vicini. Credo di essere in trappola.
Come le trombe e i corni che hanno abbattuto le inespugnabili mura di Gerico, il tremendo trillo del citofono mi fa piombare in uno stato di agitazione incontrollabile. Continua incessantemente a suonare. Chi sarà mai? Cosa vogliono? Per un momento tutto si ammanta di silenzio. Poi il citofono riprende a strombazzare più assordante di prima.
«Chi è?»
«Finalmente si è degnato di rispondermi! Sono Lazzarini, io e lei dobbiamo parlare. Più tardi mi dovrà spiegare il baccano infernale che proviene da casa sua. Molti condomini mi hanno riferito che spesso va avanti fino a notte fonda.» La voce ferrosa e roca della proprietaria di casa mi sferza i timpani. Di sicuro c’è anche lei dietro a tutto questo.
«Di cosa sta parlando signora?»
«Sì sì, certo, lei deve iniziare a modificare la sua condotta e non faccia il finto tonto. Comunque, Letizi del primo mi ha mostrato una macchia di umidità che gli si è formata sul soffitto; considerando la posizione, è ragionevole pensare che la perdita provenga dal suo appartamento.»
«Che perdita? No no, qui non c’è alcuna perdita, vi state sbagliando!»
«Questo lo stabilirà il tecnico. A breve saremo lì da lei: si faccia trovare che domani è sabato e l’idraulico non lavora.»
Stanno arrivando. A breve varcheranno la soglia di casa. Sono finito in gabbia come un topo di laboratorio pronto per il prossimo esperimento.
Sento lo scalpitio dei loro passi. Quanti sono, due, tre? La Lazzarini, l’idraulico e quel maledetto di Letizi? Sembrano diventare più numerosi a ogni passo, un’orda che si avvicina pronta ad assalirmi.
Non posso lasciarli entrare. Non posso assolutamente permettergli di entrare.

Racconto di Giovanni Mastronardo
Editing di Martina Costanzo ed Elena Sofia Ricci


L’autore

Giovanni Mastronardo ha 33 anni e vive a Bologna. Saltuariamente si traveste da giornalista, ma nella vita di tutti i giorni si occupa di cose ben più noiose. Nel tempo libero viaggia in treno cercando spunti e volti per i suoi racconti.

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