Vai al contenuto

LE OMBRE DEL MATTINO

Opera di Silvia Farina

Un brano per accompagnare la lettura:

Brano scelto da Mattia Sonzogni, editor musicale

Sento il bisogno di alleggerire l’anima dai pensieri che mi hanno colto questa mattina al risveglio. Lo so che mi diresti “Perché non me ne parli? Sai che puoi dirmi tutto”, ma questo no, non posso dirtelo guardandoti negli occhi.
Era ancora molto presto, ma io ero sveglio già da un po’, nell’ora che non è notte e nemmeno giorno, quando i colori non sono colori, ma solo il fondo neutro che il pittore stende sulla tela prima di iniziare. Col braccio dietro al capo riflettevo sulla mia vita, sulla tua, sulle nostre esistenze allacciate, come il cordone che trattiene il tendaggio in broccato un po’ discosto dal vetro. Ogni cosa nella nostra stanza apparteneva a un tempo lontano, le cui immagini nella memoria cominciavano a sbriciolarsi velocemente, tranne quel particolare che tornava a passarmi davanti agli occhi.

A quel tempo eravamo sposati forse da dieci anni. Potrebbe essere stata la cena di un nostro anniversario, ora che ci penso. Ricordo che indossavi un abito di seta azzurra che a ogni tuo sinuoso movimento rifletteva una sfumatura diversa di celeste, come il colore dei tuoi occhi. Lo avevi comprato apposta, finalmente ci ero arrivato! I capelli erano raccolti come mi è sempre piaciuto e il rossetto acceso rendeva i tuoi denti di bianchissima porcellana. Un calice di vino ti aveva acceso lo sguardo, mentre ti tenevo orgogliosamente la mano anche mentre mangiavamo, e tutti quelli che ci passavano accanto ci guardavano un po’ straniti.
Sembra ieri, tanto è stampato nella mia memoria, tanto rivedo chiaramente lo sfiorarsi di quella coppia che usciva dal ristorante. Sorridevano, ma con l’ombra grigia della malinconia che li rendeva opachi e spenti, e parevano guardarci come gli sfrattati vedono sfilare i propri beni davanti agli occhi: cose che un tempo erano loro e ora non lo erano più. Ripensandoci avrei dovuto tapparmi le orecchie, avrei dovuto chiamare al tavolo il cameriere per farci portare altro vino, o fare un cenno al ragazzo con le rose per comprartele tutte, oppure distrarmi in un qualsiasi altro modo. Invece ti ho ascoltata, come ti ascolto sempre, e ho sentito la tua voce dire ridendo: «Ti prego, se un giorno diventeremo come loro, uccidimi! Ti prego di uccidermi e di rifarti una vita».
Ricordo di essermi lasciato andare sullo schienale della sedia per osservare meglio quella coppia un po’ dondolante uscire per mano e, nel buio della notte, tenersi stretti come bottoni ben allacciati. Non ricordo la reazione che ebbi allora, se mai ne ebbi una. Forse risi stupidamente e ripresi a mangiare, poiché di una fesseria si trattava, una di quelle frasi a effetto che a volte i giovani sparano in alto senza pensare a dove cadranno.

A quel punto, mentre i miei pensieri vagavano ancora incerti, mi sono girato a guardare la sagoma che mi dormiva accanto. Eri accartocciata sotto le lenzuola, con il risvolto ben stretto vicino al mento e il capo basso, quasi sceso dal cuscino. Osservavo in silenzio la tua pelle raggrinzita dal tempo e i capelli troppo corti color asfalto dopo la neve, e ascoltavo il respiro lento e un po’ pesante, come fosse quello di uno sconosciuto addormentato sul treno.
Non so cosa provai, se avvertissi una qualche forma di sentimento per quell’essere che occupava il posto accanto al mio. Sono certo però che ancora nessuna crudeltà mi era nata dentro, anche se le tue parole mi picchiavano alla tempia come un mal di testa incipiente: mi avevi pregato di farlo! Non era colpa mia se me ne ricordavo proprio in quel momento. Eppure ti avevo detto che ti amavo appena sei ore prima, nel coricarci insieme fra le nostre quattro mura.
Dunque l’ipocrisia, della quale mi ero tanto vantato di non averla mai provata prima, nasceva così? La mia mente intanto correva da sola, ipotizzando che sarebbe bastato spingere con forza – poi forse neanche tanta – sul tuo volto il cuscino dal quale la testa ti era scivolata giù, invitandomi ancora una volta a esaudire la tua richiesta di tanto tempo fa. In fondo non era più quella la persona che avevo amato. D’aspetto almeno non la riconoscevo, ma anche l’indole e il carattere potevo confermare che fossero rimasti gli stessi di allora? Io da solo avrei potuto rifarmi una vita, proprio come avevi suggerito tu.
Uno strano vuoto si stava impadronendo del mio animo, un sudore freddo mi imperlava la fronte della paura che sentono i killer prima di sparare. Ma i killer sono professionisti, e cominciai a riflettere che di sicuro nulla nel loro animo li porta a una sudorazione calda o fredda che sia. Quindi dentro me doveva esserci ancora una piccola traccia di emozioni, sentimenti, ricordi e sensi di colpa.
Proprio in quel momento il primo raggio dell’alba ha trovato il punto esatto in cui il pesante broccato della tenda si discosta dal vetro. La luce chiara mi ha sfiorato la spalla per appoggiarsi sul tuo viso e svegliarti con la carezza del mattino. Ti sei stropicciata gli occhi, stiracchiandoti un po’ sei venuta a cercare i miei piedi con i tuoi, come fai sempre, e sorridendo hai detto «Buongiorno!» con la tua solita voce. Il riflesso dorato ti illuminava il volto e il tuo sguardo nei miei occhi era dello stesso azzurro di un tempo.
Ti ho tirata a me, ti ho stretto forte e il bacio che ti ho dato ti assicuro che era sincero. Ma ho dovuto muovermi da quell’abbraccio in fretta, per allontanarmi da ciò che la mia mente aveva cresciuto, con la scusa di aprire la finestra alla luce del mattino.
Mentre andavo a spalancare i vetri ho notato una figura passare nello specchio. Un essere in pigiama, canuto e un po’ curvo, piegato dalla rigidezza articolare dei vecchi. Subito non mi sono riconosciuto, tanto la mia mente era ferma a quella sera lontana nella quale indossavo uno smoking ed ero dritto come un fuso.
La vergogna che ho provato ancora non mi abbandona. Mi sono voltato e, immobile come un ebete, ti ho fissata a lungo e ti ho rivista esattamente com’eri nei miei ricordi, nei nostri ricordi.

Ecco la debolezza, neanche poi tanto piccola, della quale mi devo liberare, e lo faccio scrivendo una lettera, proprio ora, mentre sei uscita per fare la spesa. Prima o poi te la farò trovare ben piegata, in attesa sulla toeletta, fra la spazzola morbida con il manico d’argento e la bottiglia del profumo in vetro decorato.
Questo foglio non è solo per sollevarmi di un deplorevole fardello, ma è per dirti che se l’ipocrisia mi ha sfiorato posso giurarti che non farà più ritorno, e quando ti dico che ti amo è davvero il mio cuore che parla al tuo. Proprio come dovevano parlare fra loro quei due anziani al ristorante che incontrammo tanto tempo fa.

Racconto di Francesca Balacco Ferracini
Editing di Martina Costanzo


L’autrice

Francesca Balacco Ferracini è nata a Ferrara nel 1966, cresciuta nella provincia mantovana e attualmente vive con il marito nel modenese. Dopo la specializzazione come tecnico grafico informatico, ha svolto e tutt’ora svolge attività di disegnatrice nel campo della gioielleria. Si dedica con soddisfazione a pittura e scrittura (narrativa e poesia) da molti anni. A partire dal 2019 ha pubblicato le raccolte di poesia “Se vuoi ti presto le mie ali” e di racconti “Da lontano le formiche non si vedono”. Ha scritto e illustrato la fiaba “I colori di una stella” e “Ispirazioni in bianco”, un testo fra prosa e poesia per la rappresentazione teatrale. Nel 2022 ha pubblicato “Il mistero del Goofo Reale”, corto illustrato, fra giallo e mistero. Lettrice appassionata, ha collaborato per un portale online scrivendo recensioni di libri di vario genere. Ama principalmente i romanzi di formazione e un libro che le ha lasciato il segno è stato “Una vita come tante” di Hanya Yanagihara.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.