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L’ARTE DI SAPER CADERE

Opera di Silvia Farina

Un brano per accompagnare la lettura:

È una sera di inizio estate e una leggera brezza entra dalla finestra di casa. La gatta passeggia per la stanza in cerca di un po’ d’aria. Seduta sul divano con il computer sulle gambe, scrivo. Questa volta potrebbe essere quella buona, quella in cui finalmente riesco a lasciarmi tutto alle spalle.
Senza farci caso, mentre gli occhi sono puntati sullo schermo, con la mano sfioro il braccio sinistro. Le dita scorrono sulla porzione di pelle più spessa e rialzata.
Non è facile raccontare questa storia. È un po’ come se dentro di me qualcosa si fosse bloccato al giorno in cui sono stata ricoverata.

La dottoressa aveva deciso di alimentarmi tramite flebo; non fu facile affrontare quel momento, vedere intorno a me tre infermiere che cercavano di trovare la vena giusta per collegare il tubicino che mi avrebbe nutrita. Fu doloroso, le vene si rompevano o erano disidratate al punto da essere inutilizzabili. Solo dopo dodici tentativi ce la fecero e, da quel momento, per me cominciò un vero e proprio inferno.
I primi giorni avevo un intenso male al braccio, ma dopo un po’ mi ci abituai. Erano tante le regole che mi venivano imposte, tante le richieste: bere litri di acqua, ingerire integratori, non camminare, fare pochi sforzi, rimanere seduta, mangiare tutto quello che avevo nel piatto, fare la doccia solo quando la pressione lo permetteva, seguire le lezioni, fare le attività proposte. L’unico pensiero fisso, però, erano le calorie.
Non potevo assumere più di 350 calorie al giorno e dovevo bruciarle. Tutte.
Molte volte mi ribellavo: non dovevo ingrassare, perché ogni etto era sintomo di debolezza. Così mi ritrovavo spesso a camminare avanti e indietro per il corridoio, accompagnata dalla mia amica flebo soprannominata “Bip”, a volte da sola, a volte con le ragazze del reparto, lontana dagli occhi scrutatori delle infermiere.
Gran parte delle mie giornate però le passavo ad aspettare. Aspettavo la sera, aspettavo il momento in cui avrei chiuso gli occhi, aspettavo di spegnere la testa.
Ma non c’era mai pace. Quando pensavo di avere un po’ di tranquillità ecco spuntare la dottoressa con la sua specializzanda di turno; le visite erano le peggiori: litigavo, urlavo, discutevo, odiavo sentirmi dire che dovevo prendere peso. Sembrava che nessuno volesse capire che volevo solo essere lasciata in pace.
Poi arrivava il pranzo, che passavo seduta a fingere di mangiare mentre le ginocchia battevano l’una contro l’altra, perché sapevo che quel movimento era l’unico che mi avrebbe aiutata a bruciare le poche calorie che ingerivo.
Ogni settimana mi pesavano e, nonostante la flebo, continuavo a perdere chili, etti, grammi. Il dimagrimento improvviso aveva provocato gravi danni ai reni, e per evitare la dialisi e il sondino al naso dovevo costringermi a bere litri e litri di acqua.
L’idea di non uscire più da quel posto mi spaventava, ma l’ansia di prendere peso mi faceva così male, un male fisico, da non riuscire a dormire la notte. Non volevo mangiare perché quello che vedevo riflesso nello specchio era sbagliato, cattivo, e ai cattivi non dai nemmeno una briciola di pane.
Mi ritrovai sempre più spesso a osservare al di là del vetro, il sole che tramontava. Riaffiorava così il desiderio di correre a piedi nudi sull’erba fresca, e il ricordo delle mie amiche, di quando durante gli intervalli ci attardavamo in bagno per arrivare un po’ dopo l’inizio della lezione, oppure dei nostri interminabili giri in centro. Dei giorni passati a leggere, a scrivere, a studiare e ad ascoltare musica. Della normalità.
Ma poi vedevo quella finestra, priva di maniglia, apribile solo tramite una chiave specifica, come la mia mente, che mi faceva sentire intrappolata dentro a pensieri ossessivi. Nel film della mia vita, io ero solo una spettatrice.
Una sera, dopo aver finito di mangiare tutto quello che avevo nel piatto e con la solita vocina che mi rimbombava nella testa ricordandomi quanto facessi schifo, tornai in stanza e scoppiai a piangere. Lanciai tutti i pupazzi contro il muro e cominciai a mordere con i molari il tubicino che mi collegava alla flebo.
Ero stanca. Stanca di essere rinchiusa in quelle quattro pareti, stanca di fare solo quello che mi dicevano gli altri e stanca di trascinarmi dietro, da più di due settimane, quella macchinetta a cui avevo pure dato un nome.
La saliva bagnava la plastica morbida del piccolo tubo, e i miei denti non erano intenzionati a fermarsi.
Cominciai a vedere la stanza intorno a me girare, la testa mi scoppiava. Tirai fuori dalla bocca il tubicino masticato, iniziai a tirarlo e digrignai. L’ago inserito nella vena si mise a tremolare e il sangue a zampillare fuori. Ma non mi interessava, i sensi di colpa erano più forti del dolore.
Dopo minuti e minuti a mordere e strappare, il tubo si ruppe e io mi accasciai a terra. Sentivo ancora le lacrime calde rigarmi le guance e il braccio bruciare, poi mi arresi al buio.
L’anoressia è questo: ti fa vivere il momento più felice della tua vita mentre ti trascina e incatena sul fondo. Ti senti forte, potente. Se riesci ad avere il controllo dei bisogni comuni, come la fame, puoi avere il controllo su qualsiasi altra cosa. Ti rende invincibile: tenevo in pugno la mia vita, le mie emozioni.
Il prezzo era uno, dovevo solo perdere peso.
Ho un unico ricordo di quella sera: ancora adesso, a distanza di anni, rivedo con chiarezza i volti delle infermiere che mi trovarono per terra.
I giorni successivi furono molto duri; passavo molto tempo in quel letto freddo e vuoto di una stanza d’ospedale qualsiasi, mentre il sole batteva sempre più caldo attraverso la finestra.
I medici avevano capito che sarebbe stato inutile mettermi una seconda flebo e che non mi avrebbero aiutata in quel modo. Allora la mia dottoressa cominciò a farmi visita più spesso, decise che le mattine in cui sarei stata pesata, non avrei più dovuto vedere il mio peso.
Da quando non venivo più alimentata tramite flebo, ripresi a sentire il mio stomaco brontolare e le giornate sembravano più radiose. La mia pelle era più rosea e gli occhi più luminosi. Mi sentivo meno malata di quanto fossi in realtà.
E anche se all’inizio fu dura, ripresi a mangiare; non finivo mai tutto quello che avevo nel piatto, ma il fatto di mangiare quasi tutto senza che le infermiere ogni volta mi controllassero, fu bello.
Ogni volta che arrivava l’ora dei pasti, mi sedevo al tavolo e cominciavo a combattere contro i soliti sensi di colpa e le paranoie. Però sapevo di potercela fare, sapevo che la stessa forza distruttiva che impiegavo nell’obbligarmi a non toccare cibo dovevo utilizzarla anche in questi casi, ma trasformandola in determinazione.
Quel legame che mi teneva legata alla malattia, alla flebo, lo stavo spezzando.
Ed è così che rinacqui.
A volte non toccavo cibo per tutto il giorno e per questo mi sentivo una perdente. Altre volte mangiavo tutto quello che avevo nel piatto e mi sentivo in colpa. Era un’enorme battaglia interiore.

La gatta, con un salto improvviso sul divano, mi si raggomitola accanto. La accarezzo sovrappensiero, poggiando il computer da una parte. Mi alzo e vado verso la finestra aperta per respirare l’aria della notte. Ora posso permettermelo.
Buba mi raggiunge strusciandosi contro la gamba e il suo pelo mi solletica il polpaccio. Mi è venuta voglia di gelato, apro la porta del freezer e agguanto un cornetto Algida. Lo assaporo come se fosse il primo. Come quando lo mangiai la prima volta dopo anni e scoppiai a piangere.

Mi piace pensare al fatto che, se quella sera di dieci anni fa non avessi rotto quel tubicino, ora non sarei qui.
Anche se stavo meglio rimasi in ospedale per un mese e mezzo e, tra alti e bassi, nonostante mangiassi, continuavo a perdere peso a causa del metabolismo ormai più veloce. La felicità dei miei genitori nel vedermi meno pallida e più sorridente era inappagabile. Le visite con la mia dottoressa piano piano andarono meglio; era felice di vedermi star meglio, di vedere come non dissezionavo più i pasti ogni volta che dovevo mangiare.
E io, nonostante la difficoltà, affrontai il cibo e ricominciai ad assaporare la vita.
La storia non finì lì, perché negli anni successivi venni ricoverata ancora molte volte. Mi capitò spesso di avere delle ricadute e, ancora oggi, nonostante sia passato molto tempo, la mia lotta con il cibo a volte torna a bussare alla porta.
Ma non importa quante volte si ripresenterà e mi farà cadere. Ora so di avere la forza di rialzarmi ogni volta. Perché è così che mi sono costruita, pezzo dopo pezzo, in tutti questi anni, come un puzzle di ansia, paura e tristezza, ma anche di gioia e serenità.

Le dita smettono di rincorrersi sui tasti del computer. Buba ormai si è addormentata al mio fianco, chiudo piano il PC e lo appoggio a terra, mentre dalla finestra comincia a entrare un po’ di luce e il cielo a dipingersi di rosa. La sveglia accanto al divano segna le cinque del mattino. Mi accoccolo vicina alla gatta e chiudo gli occhi.
Finalmente posso dormire tranquilla.

Racconto di Marta Schipani
Editing di Martina Costanzo

Racconto legato alla Giornata nazionale contro i disturbi del comportamento alimentare (15 marzo)


L’autrice

Marta Schipani nasce negli anni 2000 e vive a Torino. La sua passione per la scrittura e la lettura nasce da un periodo buio della sua vita. I libri, infatti, diventano per lei il modo di estraniarsi e vivere altre vite. Studia scrittura creativa e vorrebbe lavorare nel mondo della comunicazione, della moda e dell’editoria oltre a essere anche una scrittrice.

1 commento su “L’ARTE DI SAPER CADERE”

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