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L’ASTA

Opera di Silvia Farina.

Un brano per accompagnare la lettura:

Brano scelto da Mattia Sonzogni, editor musicale.

La musica forte viene tutta dall’altro appartamento. In quello adiacente c’è una signora, truccata finemente, che si morde le unghie, serrando energicamente le palpebre per ricordare il nome, per partorire quel cavolo nome. Come si chiama suo figlio?
L’ansia la prende per il collo, il respiro è affannato e la donna si asciuga la fronte sudata con il gomitolo di stracci che tiene nella mano destra; un mucchio di stoffe, indumenti da portare a quella raccolta sotto casa, “Sono dei bravi ragazzi, – pensa – volenterosi, per una volta che la Chiesa se ne sta fuori vanno aiutati. Tanto Betta nemmeno se la ricorda questa bandana rossa!”.
Siede lì tra i vestiti sepolti e dimenticati, come le inutili cartacce, gli scontrini nelle tasche, che hanno finito per consumare la vecchia lavatrice. A quella nuova non riesce proprio ad abituarsi, strepita come le galline sgozzate dal padre quando lei aveva undici anni.
“Euronics, Elettronic, Unieuro…” ma dove l’aveva comprata? Ecco, di nuovo, non ricordava. “Nessun privilegio, cara Signora Maltese – ripete fra sé e sé – nessuna grazia o benedizione. È giunta la tua malattia”.
Troppi giorni hanno calcato il suo corpo esile. Giornate frenetiche e vuote hanno scavato un tunnel al centro del suo sterno e ora le scorrono dentro con la fluidità della melma.
“È l’Alzheimer”, lei lo sapeva. Anche la maestra d’asilo di suo figlio si era dovuta ritirare, senza nessun preavviso. Prima piccole amnesie, “Niente di serio” secondo i medici. Prima. E poi “L’hanno rinchiusa in un istituto. Il marito s’è rifatto una vita con la vicina, è diventato un politico importante e quella povera donna se l’è dimenticata pure il Padre Eterno!” continua a ronzare la sua testa.
La donna decide di chiamare il figlio ventisettenne, che vive da due anni in Olanda. “Un ragazzo così sensibile”, che cela una fragilità nascosta dietro a occhi come mandorle, un sorriso pieno che fa intravedere la gola grazie ai grandi spazi tra gli incisivi. “Non gli abbiamo mai fatto mettere l’apparecchio” prosegue la sua mente, come coperta da un velo. “Da sempre, questa sensibilità sopra la media… Se l’è portata con sé fino a Utrecht!”.
Il flash del suo sorriso fa nascere un altro ricordo: quel giorno dal dentista. Lui aveva una paura tale da farlo rintanare sotto la sua gonna di chiffon blu notte e non si fece visitare; le persone in attesa si erano sbellicate dalle risate. “È proprio un buffone: poteva diventare un attore! Alto, con quel fisico imponente, era perfetto per le pubblicità dei costumi da bagno… Mah, no! Via, troppo emotivo!”.
Un discorso simile l’aveva fatto con quella donna al supermercato. Ricordava quella giornata con fastidio: l’afa del mezzogiorno estivo, l’affanno dato dalle incombenze della spesa – che cosa avrebbe cucinato? – Umberto, il lavoro stancante di Umberto, lo sforzo per ricordare dove aveva messo la macchina – “Certo c’erano pure posti più vicini, maledetta smania di fare movimento, guarda a che devo sottopormi!” – .
Mentre erano in fila alle casse, lei e quella donna si erano scrutate per tutto il tempo, valutando la tipologia di pasta scelta, i due pacchi di pasta integrale dell’una e il grano duro dell’altra, la marca di yogurt ad alta digeribilità dell’una e la valanga di vaschette di plastica di yogurt greco dell’altra.
Siria l’aveva aiutata a portare le buste della spesa, tanto che aveva deciso di farle delle confidenze, abbattendo il muro delle chiacchiere di circostanza. Tuttavia, si era subito accorta che sarebbe stato difficile liberarsi dalle catene della mediocrità.
«Ma sa, con i figli è sempre così» aveva esordito la signora, sentiti i dubbi di Siria sul trasferimento del figlio «da solo, senza nemmeno una fidanzata…».
«Per carità, lui è sempre stato indipendente, non ha bisogno di nessuno, nemmeno della mamma! Mi chiama raramente, e sempre perché gli serve qualcosa!». Aveva continuato, dicendo una mezza verità, rubando parole dalle frasi già confezionate, ottime per proseguire una chiacchierata impersonale, senza troppi intoppi emotivi e capaci di rimuovere, velocemente, le tracce di quell’incontro dalla testa dell’interlocutore.
«Suo figlio quindi ha studiato scienze politiche?» aveva incalzato l’alta e sofisticata signora. «E dove? Vorrei tanto che mia figlia si laureasse, ma chissà. Però è una pallavolista eccezionale! Lo sport forse è più importante dello studio a questa età».
Siria era andata avanti, ormai vinta dallo sconforto. Avrebbe potuto stramazzare a terra, come le galline del padre nel pollaio, capaci di evocare un senso di straziante martirio nei confronti dell’ingiustizia del mondo. Man mano che le domande aumentavano, Siria aveva percepito la voce della donna sempre più lontana, come fosse parte dell’ecosistema dei rumori della città.
Il viaggio di ritorno era stato rigenerante. L’asfalto era docile, le curve morbide, il verde bruciato sul ciglio della strada aveva un aspetto asettico e immobile, che le restituiva il controllo sul mondo circostante. Il semaforo era diventato rosso prima di svoltare a destra e di entrare in quel grosso viale, decorato di lampioni e alberi bassi (piantati sei o sette anni prima), che recintavano i portoni e gli annessi citofoni, fatti di moltissimi nomi puntati e cognomi, tra cui, al civico trentasette, “Ing. Posteraro-Maltese”.

La camera di Siria Maltese si affaccia proprio su quella strada, che spesso si ferma a osservare per aggrapparsi alla normalità confortante dei passanti, delle foglie mosse dal vento e delle auto, che si muovono lente lungo i viali di Torino.
Così, anche oggi. Se ne sta rannicchiata dietro alle tende bianco panna, mentre fa squillare il telefono del figlio. “Figuriamoci, non risponde”. Guarda gli alberelli spogli, così tanto simili ai disegni stilizzati che il figlio faceva da bambino. “Per lui potrei essere morta. Non verrebbe a conoscenza nemmeno del mio funerale”.
«Tuo figlio è grande e merita di viversi la sua vita in santa pace. Sei una madre così opprimente, Siria! Lascia che sia lui a cercarti, non assillarlo con tutte queste inutili chiamate» così le diceva Umberto, il suo nuovo compagno, durante le loro discussioni a cena, mentre masticava il cibo insipido appoggiato distrattamente da Siria sul tavolo. Il sottotesto era che, per lui, non avevano nulla da dirsi. “Nulla da dirci? Ma se mi ha sempre ignorata, non so nemmeno se ha mai avuto una fidanzata!” pensava allora lei.
Mentre le tende le accarezzano la nuca, viene inghiottita dai pensieri. Ed ecco che risponde l’ennesima segreteria telefonica. «Se puoi richiamami, sono la tua mamma!». Così, più fiacca di prima, si stende sul letto e comincia a dormicchiare. Sono le sei e venti di quella domenica sospesa. L’asta sarebbe cominciata la mattina dopo.

Il telefono di Siria si illumina a più riprese. Sono le nove di mattina, sullo schermo: Annetta.
Annetta è la curatrice di una casa d’asta tra le più note di Torino; Siria aveva accettato la sua proposta di presentare l’asta di beneficenza dedicata a Milo Mauro Bagliori, il celebre e stimato stilista che aveva donato in beneficenza il suo ricco ed esuberante guardaroba.
Annetta voleva lei, era stata categorica: sia perché le riconosceva gusto in fatto di moda, sia perché sperava di aiutarla a stare meglio. Siria, da parte sua, aveva accettato distrattamente, come faceva con tutto da quando il figlio l’aveva abbandonata.
Manca poco meno di un’ora all’inizio. La casa d’asta si trova al centro di un parco; all’edificio si accede tramite una stretta scalinata di pietra brumosa, dopo aver schiacciato centinaia di foglie secche sul terreno umidiccio.
Gli spettatori sono, per lo più, donne di mezza età, disposte in gruppetti di tre o quattro sulle scalinate, poi più in là, davanti al portone, ci sono una decina di ragazzi molto giovani.
Annetta, dall’interno, continua a telefonare. Deve rintracciarla. “Non può essere diventata così stronza” pensa, tentando di frenare i timori sullo stato di salute dell’amica.
All’improvviso, gridolini acuti e affannati rompono il chiacchiericcio: «Scusate, ecco. Sì, mi scusi, permesso», Siria spinge la porta e irrompe nell’atrio, Annetta la guarda con fastidio. «Non voglio sapere niente, non c’è tempo. Vatti a rinfrescare, pettinati! Fra dieci minuti si inizia».
La gente viene fatta accomodare nel salone, non rispettando l’ordine dei posti assegnati. In prima fila si siedono una decina di studenti di una Scuola di arte e moda di Torino. La sala è quasi al completo; per tutta la stanza imperversa l’odore acido di una fragranza al muschio bianco, da fare venire voglia di spalancare le finestre intorno alla platea. Annetta, dopo avere ringraziato e onorato il ricordo dello stilista, passa sbrigativamente la parola a Siria.
L’asta prosegue in modo noioso. Siria descrive gli abiti introdotti sul palcoscenico senza coinvolgimento: i suoi occhi spenti somigliano a quelli dei viaggiatori delle metropolitane, le cui pupille sembrano custodire l’elemento primitivo della violenza, a tratti illuminato dal fascio di luce algida dei neon. Anche Siria trattiene quel frammento di energia, pronto a esplodere.
L’unico sprazzo di vivacità è nella prima fila, dove stanno seduti due studenti. Siria li guarda involontariamente, percependo in loro la ragione autentica del suo dolore. Sono due ragazzi sulla ventina. Uno dei due, il più magro e slanciato, bisbiglia al ragazzo accanto in modo complice, gesticolando: per parlargli, sporge il suo corpo su quello del compagno, sfiorando le sue orecchie con le labbra carnose e sanguigne. I loro corpi sono vicini, stretti e intimamente connessi, come a formare un microcosmo a sé stante: le gambe sono distese in avanti e tra loro intrecciate, e i gomiti spingono con irruenza sui braccioli di metallo, emanando l’enfasi distruttiva dell’amore.
L’atmosfera soporifera viene interrotta dall’arrivo dell’ultimo abito sul palcoscenico, il più eccentrico e stravagante, un abito da sposa, la creazione più preziosa dello stilista: un bustino ocra nella parte superiore e, in quella inferiore, una voluminosa gonna in chiffon di colore blu elettrico, interamente tappezzata di lustrini.
Siria lo scruta, assorta. Il suo silenzio pone il pubblico in uno stato di profondo imbarazzo, come in tutte le situazioni impreviste. Ecco che la sala inizia a riempirsi di rumori: il cigolio delle sedie, gli innaturali colpi di tosse e un sordo bisbigliare. Siria sembra diventata la direttrice d’orchestra e gli spettatori i suoi orchestranti; solo un suo gesto avrebbe potuto fermare quell’armonia dinamica e improvvisa.
Gli spettatori sembrano rapiti da un sortilegio. Tutti insieme subiscono lo straniamento e l’eccitazione creati da quella brusca interruzione. Tutti tranne i due ragazzi in prima fila, diventati ormai il bersaglio visivo di Siria. Lei li fissa e loro non se ne accorgono. Proseguono una conversazione segreta in modo appassionato, irradiando un’energia per Siria attraente e spaventosa.
A un tratto, come se avesse assorbito quell’energia tutta di un colpo, Siria esce dall’immobilismo e comincia a muovere passi lenti e incerti verso l’abito. Gli spettatori, in uno stato di trance, restano in religioso silenzio, come se il gesto della conduttrice sia stato il segnale di fine concerto. La guardano camminare sulla passerella che porta davanti all’abito da sposa, dove si blocca, irrigidita. Poi, presa da un impeto, alza le mani, strappa lo chiffon blu elettrico dalla gonna e se lo mette sul capo con superbia, facendolo arrivare davanti al volto fino a sfiorare selvaggiamente le spalle scoperte.
L’iconica passeggiata termina davanti a lui, il ragazzo moro, alto e magro. Siria lo contempla, terrorizzata, senza dominare i movimenti del suo corpo e, come obbedendo a una volontà superiore, comincia ad accarezzargli la fronte. Poi, finalmente, le sue gambe esauste cedono e cade in ginocchio al suo cospetto: «Andrea, Andrea!».
Siria sussurra frasi sconnesse, aggrappandosi alle gambe del giovane. E continuando a toccarlo, quasi che il contatto tra i loro corpi ripristinasse la sua lucidità, riprende fiato, come una donna che è stata per tutta la vita in apnea: «Figlio mio, sono la tua sposa e tu ti sei innamorato di lui, figlio mio, ti prego, parlami, confessami l’amore. Sono la tua mamma. Non farmi stare in pensiero!».

Utrecht era così bella d’estate. Sentiva di viverci davvero, per scelta, senza inseguire gli impegni dell’università, le uscite, la socialità. Vedeva poche persone.
Andrea è seduto sul letto a piedi nudi, con il PC tra le gambe e il cellulare in una mano. La camera è silenziosa e sospesa nel fumo della sigaretta bianca che stringe tra le dita affusolate. La colonna di fumo si muove lentamente verso l’alto, mescolandosi con il bagliore tenue della luce mattutina.
Le dita dei suoi piedi afferrano le lenzuola scolorite. Sanno di tabacco, un odore che un po’ gli repelle e un po’ gli piace, perché gli ricorda un ambiente famigliare, vecchio e disabitato, ma dove la presenza umana è solo casuale, che passa e se ne va, lasciandosi dietro soltanto il segno del suo transito e l’attesa di un possibile ritorno.
Sta scrivendo la tesi, vorrebbe finire gli studi a ottobre. Poi, pensa di partire di nuovo.
“Potrei anche avvisarla…”. Sua sorella Betta al telefono gli aveva detto di farlo, di invitare la madre, che le avrebbe fatto piacere venire in Olanda per il giorno della laurea. Ma a lui non interessava nulla, voleva solo concludere tutto e andare via, forse seguire l’amica soprano in Giappone. Senza dire niente, voleva far perdere le proprie tracce ed evaporare.
In verità lo compiaceva immaginare la madre preoccupata, in ansia per la sua salute e la sua esistenza. L’apprensione materna sembrava disegnare l’itinerario degli spostamenti del figlio e tessere il filo geografico della sua irrequietezza. Andrea sentiva che con il silenzio e l’assenza riusciva a rinsaldare quel filo, che in questo modo si dilatava sempre di più e sempre di più lo conduceva lontano. Tranne la notte.
La notte si svegliava all’improvviso con tutti i muscoli tesi, e desiderava averla lì con lui, seduta sul ciglio del letto a parlargli con la voce calma, ovattata dalla tenebra muta, per aiutarlo a sciogliere quel groviglio di nervi. In quelle situazioni scrollava i social, poi si alzava a bere l’acqua per placare il bisogno con un gesto sconnesso da quel bisogno. Infine, andava nella stanza di Marcus e si addormentava accanto a lui.
Andrea sente improvvisamente abbaiare da sotto il letto e si riscuote da quei pensieri. È Nada, il cane che ha preso con Marcus a inizio anno, che è stato infastidito dall’approdo di alcuni piccioni sopra il davanzale della finestra semiaperta: «Sssh tu, non rompere questa pace» lo rimprovera Andrea poco convinto.
“Se io le avessi risposto – pensa tra sé e sé – magari avrebbe saputo che esisti anche tu, Nada”.
Ma ciò che Andrea voleva davvero era sparire, come aveva fatto suo padre.

Racconto di Luna Lizzi
Editing di Martina Costanzo


L’autore

Luna Lizzi nasce a Pescara, cttà di mare, in Abruzzo. Si trasferisce a Roma a 19 anni, dove perfeziona i suoi studi in Giurisprudenza.
Dà seguito alla sua creatività come può, le modalità che preferisce sono la scrittura e la fotografia. Le sue foto sono state pubblicate su Clean Rivista e utilizzate per illustrare il numero curato da Nicola Nucci.

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