Vai al contenuto

L’ASSISTENTE DI VOLO

Opera di Silvia Farina.

Un brano per accompagnare la lettura:

Brano scelto da Mattia Sonzogni, editor musicale.

Non sono più viva.

Tutto è immobile intorno a me. Nessun cambiamento, nessuna differenza, nessuna tensione. Tutto è irrimediabilmente fermo. Io sono immobile, ferma. Non più viva da un po’.

Per chi traversa mari, colline e montagne ogni giorno per lavoro, è un’affermazione forte. Non sono viva, tutto qui. Me ne sono resa conto oggi, guardando l’ultimo passeggero attraversare il portellone, con lo zaino di tessuto sintetico e la faccia stanca di chi non è al primo scalo.

Io non sono viva.

Mi ha salutata con un cenno del capo. Biglietto, signore, sono costretta a dire sorridendo, anche se sono le 9 di sera e quello è il mio ultimo volo prima di chiudere il turno e tornare a casa, finalmente.

Io, Francesca Lipani, 28 anni, di Caltanissetta, residente a Misterbianco, non sono viva.

E ho realizzato la mia non esistenza proprio su questo volo Milano-Catania, del 24 dicembre 2019, non appena quell’ultimo passeggero, trentenne, zaino in spalla, ossuto, avvolto nel suo cappottino vintage, ha attraversato la soglia tra l’aeroporto di Linate e il mezzo su due ali che lo avrebbe portato a casa in poco più di un’ora e mezza. E stava portando a casa anche me, che una casa non ho.

Cos’è una casa? Uomini e donne tornano per le vacanze natalizie a frotte, su e giù per aerei, treni, autobus, da nord a sud, dalle grandi capitali europee ai piccoli paesi, dai centri alle periferie. Tornano a casa. Solo in questa settimana ne avrò viste un migliaio di facce pronte ad affrontare la fatica e le spese di un viaggio, per abbracciare la gioia di un luogo a cui tendere e da cui fuggire qualche giorno dopo. Un toccasana per le tasche delle compagnie aeree. Così, vedendo queste facce, scrutando nei loro occhi quest’attesa festosa o abitudine inevitabile, ho visto finalmente me stessa.

Non sono viva. Non sono viva perché non ho una casa a cui tornare. Nessuno a cui rivolgere il mio abbraccio. Niente da toccare al mio rientro, bisognoso di una carezza. E sono immobile. Non riesco a cambiare.

L’uomo con lo zaino e la faccia stanca porta gli auricolari e degli occhiali maculati. Sta scrivendo su un quaderno: parole, parole, parole. Forse descrive questo volo, le facce intraviste, i rumori ovattati, l’attesa e il senso del nulla che ne deriva. Forse sta scrivendo di me; chissà se avrà colto il garbuglio interiore o se è solo un’invenzione da narratore, la vita. Quello che ero: bambina che corre fra le campagne siciliane, le mani ruvide di zia Rosa che sbucciano un ficodindia rosso sangue, le spighe pungenti fra le cosce nude e un sole caldo, impossibile. Quello che sono: provvisoria, confusa, indistinta. Quello che sarò: una donna che non esiste ancora ma che avrà tutto il tempo di sbagliare e di perdersi, di tornare forse.

Ormai da quattro anni, trascorro gran parte del mio tempo in un luogo che dà forma al mio spazio interiore, ai miei desideri. Anche se non lo voglio. Dunque, qualcosa succede quassù, in alta quota. Certo precario, sospeso, imprevedibile, ma comunque questo è un posto dove resistere. Allora, forse, una casa io ce l’ho, qui, tra queste poltrone infeltrite e la moquette impolverata, le livree inamidate e i caffè americani, le battute fra colleghi e le pantomime coi passeggeri. Una casa io ce l’ho, anche se vola a diecimila metri di quota e viaggia a novecento chilometri orari. E forse dovrei gridarlo al mondo,

sono viva, sono a casa.

Il volo AZ1747 del 24 dicembre 2019 subì una scossa violenta verso le 22:45. Uno dei due motori cedette emettendo un rombo improvviso. L’aereo si incrinò sul lato destro, costringendo i due piloti, Carlo Maria Fumagalli di quarantacinque anni e Federica Faranda di trentadue, a una virata disperata. Le luci all’interno dell’abitacolo si spensero d’un tratto, e si accesero i led di emergenza color verde opaco intermittente. Il lungo ambiente tubolare, dove erano stipati i passeggeri, si riempì di urla scomposte, e le maschere per l’ossigeno furono rilasciate penzoloni da piccole botole sul capo di ogni viaggiatore. Anche il secondo motore andò in avaria, e si spense lentamente la sua turbina in un cigolio sincopato.

Francesca era in piedi quando l’aereo iniziò a sobbalzare. Stava versando una tisana alla signora del posto 25C. Cadde slogandosi una caviglia e si accasciò tra i sedili. Il colpo la stordì, ma riuscì a sollevarsi e a protendersi cercando di reggere il carrello portavivande. Un’altra virata repentina. Il carrello venne scaraventato dall’altro lato del velivolo colpendo alcuni passeggeri. Francesca afferrò la base in acciaio di quel sedile, il 25C, cercando di non essere scagliata a sua volta. La testa girava, i muscoli erano indolenziti, il corpo era contuso. Eppure, il dolore non esisteva, il panico aveva cancellato tutto, non c’era spazio per il resto.

La fusoliera avvolta dal fumo si avvitò su sé stessa per qualche minuto prima di precipitare rovinosamente contro un monte, nella serena notte siciliana. Lo schianto fu inevitabile. Il boato dell’impatto svegliò chi era andato a letto, fece rizzare in piedi quanti erano svegli, in molti accorsero sul luogo dell’incidente, altri scapparono via spaventati. Arrivarono i primi soccorsi dopo una decina di minuti, sirene di ambulanze, camion dei vigili del fuoco e auto della polizia tagliavano a ritmi diversi il cielo notturno e interrompevano il suono crepitante delle fiamme. Il velivolo si era spezzato in due tronconi che erano scivolati, dopo l’urto, lungo il versante meridionale del monte San Giuliano di Caltanissetta. Le fiamme ribollivano la vernice bruciata della fusoliera, e il fumo nero saliva alto in cielo a lambire la statua del Cristo Redentore in cima al monte. La mano della statua, in segno di benedizione, afferrava quel manto di fumo e fuliggine, ma non riusciva a trattenerlo.

I vigili del fuoco lanciarono, dopo aver attivato le pompe idrauliche dalle camionette, una schiuma ignifuga contro i resti dell’aeroplano per soffocare quell’incendio e raffreddare i materiali. Lo schianto era stato violento, nonostante i tentativi dei piloti di decelerazione. Alcuni corpi carbonizzati cominciarono ad emergere fra le lamiere, altri resti insanguinati, esseri umani un tempo vivi ora ridotti in brani informi, impossibili da riconoscere ad occhio nudo. Il crepitare delle fiamme, pian piano, si interruppe per lasciare spazio al solo suono delle sirene, alle grida dei soccorritori, al dolore di quanti si trovarono spettatori di quella tragedia. Anche il flusso degli idranti si interruppe: le fiamme erano domate. Poi, un colpo di tosse debolmente si udì. Proveniva da quel che restava della coda dell’aereo. Un vigile del fuoco si avvicinò bardato col suo casco traslucido e la tuta ignifuga. C’è un superstite là sotto. Qualcosa si muove. Bisogna tirarlo fuori. Fate avvicinare i paramedici. Fra i rottami anneriti, Francesca giaceva esanime, ansimante, ma ancora viva.

Respira!

Mi senti? Riesci a sentirmi? Puoi muoverti?

Francesca tirò su il capo, i lunghi capelli biondi ricoperti di cenere velavano un volto irriconoscibile. Un altro colpo di tosse. Gli occhi di Francesca fissarono il casco traslucido del pompiere. Con un filo di voce,

sono viva, sono a casa.

Racconto di Giulio Foderà
Editing di Giorgia Vullo e Martina Marotta


L’autore

Giulio Foderà è nato nel 1991 nel cuore della Sicilia. Ha studiato Lingue e culture europee, euroamericane ed orientali a Catania, e ha proseguito i suoi studi a Bologna dove ha conseguito la laurea in Letterature Moderne Comparate e Post-coloniali con il massimo dei voti. Il suo amore per le lettere lo ha portato in giro per tutto il mondo. Attualmente insegna letteratura e lingua inglese presso un liceo a Monza.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.