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LEI

Opera di Silvia Farina.

Un brano per accompagnare la lettura:

Brano scelto da Mattia Sonzogni, editor musicale.

“È proprio sicura di voler rovinare la vita ad un ragazzo così giovane?”
Era la prima volta che qualcuno mi dava del lei. Quel pronome mi faceva sentire una donna adulta, ma pensare di esserlo diventata in quel frangente, a nemmeno diciassette anni, un po’ mi disorientava. Le emozioni, però, quella mattina erano annebbiate e non gli avevo dato troppo peso.
Non ero riuscita a rispondere alla domanda del Questore. È poco educato, pensavo tra me e me. Si è scomodato a venire fino in ospedale, forse una risposta la merita.
Cercavo di inventarmi qualcosa per quei due occhi neri e penetranti che attendevano che la mia bocca gonfia e rovinata di adolescente si aprisse. Tirandomi su in quel letto, barcamenandomi tra collare e fasciature, vedevo altri occhi, al di là del vetro di quella stanza di medicina generale che per diverso tempo sarebbe stata il mio rifugio: erano quelli di mia madre, diventati viola, incorniciati dal dolore e dalle lacrime che non riuscivano più a scendere. Vedevo quelli di mio padre, cupi, che per mesi non sarei più riuscita a incrociare.
“No, non sono proprio sicura di voler rovinare la vita a un ragazzo così giovane, ma sa…”. Non mi era stato possibile terminare la frase.
“Perfetto allora venga messo agli atti che non è interessata a sporgere una denuncia di parte. Verrà considerata solo quella d’ufficio varata da ‘sti inetti del Pronto Soccorso.”
Già, perché se sei minorenne o se la tua prognosi da percosse è di più di venti giorni, e ti presenti per la sesta volta in un anno con ferite e lesioni gravi, parte la rinomata “denuncia d’ufficio”. Anche il medico che ti visita – dopo gli esiti negativi agli esami per labirintite – ritiene che forse il tuo essere maldestra e cadere dalle scale a intervalli alterni di due mesi sia diventato un po’ surreale.
Così, con quella denuncia d’ufficio, per un paio d’anni mi ritrovavo ogni cinque, sei mesi in fila davanti a un’aula di tribunale del Giudice di Pace. Con me, in attesa del proprio turno, persone che contestavano multe, condomini che battibeccavano su chi doveva mettere la macchina in quell’angolo di cortile o proprietari di immobili che non riuscivano ad accordarsi sulla distanza delle siepi che dividevano le loro case.
Certo, entrare lì dentro, vedere l’uomo che per due anni mi aveva strappata dall’adolescenza e catapultata in un film di Stieg Larsson, non era il modo migliore in cui avrei voluto passare quelle mattinate. Avrei apprezzato di più stare seduta in un banco di un’aula sì, però di scuola, con i miei coetanei; invece no, entravo lì, leggevo gli sms pieni di minacce e termini coloriti con cui venivo appellata, ricevuti negli ultimi due anni da lui, spiegavo il perché avevo perso il primo anno di superiori – paradossalmente le botte erano più semplici da nascondere a casa che a scuola.
Guardavo negli occhi gli esponenti delle Forze dell’Ordine che più di una volta erano stati chiamati per intervenire durante una performance di violenza di strada e, arrivati, guardavano lui e dicevano:
“Ah, sei tu! Fai occhio, che non possiamo fare finta di niente ogni volta!”.
Uno di loro, durante una testimonianza, si era anche premurato di rendere conto al Giudice che mi aveva chiesto, quel pomeriggio in Corso Dante, in cui il mignolo penzolava dalla mia mano destra e il sangue mi usciva dal naso, se stavo bene, e io avevo risposto di sì. Stupida ragazzina ingrata che non ero altro. Avevo risposto di sì, cosa mi aspettavo?
Così, descritta come cuor di leone da tutte le persone che, come per magia, dopo due anni che non si erano fatte vedere, ora mi si erano materializzate accanto – forse va di moda avere un’amica, parente, conoscente maltrattata – una mattina di novembre ho appreso che lui avrebbe dovuto solo pagare una multa. La cifra, non che siano i numeri la cosa importante, era molto vicina a quella che si paga quando si fa ricorso per essere passati con il rosso.
La storia me la sarei potuta lasciare alle spalle. Funziona così in Italia. Picchi qualcuno molto più giovane di te per due anni, che ancora crede all’amore, che non ha esperienza di alcun tipo, che si sente in colpa ogni giorno per non riuscire ad affrontare sé stessa e gli altri chiedendo aiuto, che ha solo paura di deludere qualcuno facendolo, e il massimo che ti tocca è pagare una multa.
Giri a testa alta per la città, mentre chi ha subito cambia Stato e fugge il più lontano possibile da quell’incubo che ha vissuto, cercando la propria identità di donna. Cercando qualcosa che, anche senza darle del lei, la faccia sentire tale. Consapevole che riuscirà a trovarlo solo quando il senso di colpa di non essere stata all’altezza di avere quindici merdosi anni scivolerà via attraverso le cicatrici.

Racconto di Alessandra Sola
Editing di Martina Costanzo

Racconto legato alla Giornata contro la violenza sulle donne (25 novembre)


L’autrice

Alessandra Sola è nata nel 1996 ed è una studentessa del secondo anno del corso di Laurea della Scuola Holden. A diciannove anni si trasferisce a Lipsia per lavorare negli asili e imparare la lingua e la cultura tedesca. Grazie a un libro di Brecht, che le fa ricordare l’amore per la letteratura, la drammaturgia e la poesia, torna in Italia e, grazie alla sua piccola attività commerciale, riesce a iscriversi ed essere ammessa alla scuola Holden.
I viaggi e i suoi vissuti sono ciò che la spinge a scrivere racconti e a condividere con chi ha intorno esperienze e momenti che nella vita l’hanno toccata particolarmente.
Nel 2022 è tra i cinquanta finalisti del Trofeo Penna D’autore per la categoria racconti inediti, pubblicando il suo scritto sull’ebook dedicato. Attualmente scrive per diversi blog di viaggi.

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