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ADDII

Illustrazione di Silvia Farina

Un brano per accompagnare la lettura:

Guardai in basso. Da quell’altezza mi sentivo invincibile, il corpo che diventava quello di un gigante. Gli scalini si susseguivano uno dopo l’altro, come a rincorrersi, fino ad arrivare al pianerottolo, dove si trovava la porta dell’appartamento in cui ho sempre vissuto. Non sapevo niente di materiali, ma avevo la certezza che quelle scale fossero di marmo, perché me lo aveva raccontato la nonna: “Senza scale di marmo, mica lo avrei sposato il nonno”. E allora eccole: pegno di matrimonio e unione. Le venature scure, sottili, che macchiavano il grigio pallido del marmo, mi parevano però segni di un male incurabile. Una falda acquifera di sofferenze indicibili. Io ne sapevo qualcosa, di quelle acque putride. Le avevo bevute, ci ero quasi affogata. Ma in quel momento, mentre sovrastavo con la mia piccola statura il vano delle scale, non mi sentivo mortificata. Stavo bene. Sorridevo, mentre le mani pulite mi scivolavano sul tessuto dei jeans.
Poi, la sentii, dietro di me. Quel passo inconfondibile: il ticchettio del piede sinistro e il fruscio della suola destra. Era una danza di cui conoscevo le note a memoria, la ballavo cambiando il ritmo per renderla più conforme al mio animo ingenuo.
«Non si gioca sulle scale, forza! E se ti fai male?». Il sentore della catastrofe, a casa mia, lo si odorava in ogni frase, in ogni gesto, compiuto o meno con consapevolezza. La nonna diceva che il motivo era molto semplice: su di noi, sul cognome della nostra famiglia, si era abbattuta una sciagura terribile otto anni prima. Diceva solo quello, non aggiungeva altro. Mai. Io non facevo domande perché, come mi ero accorta, avevano il potere di turbare tutti. Ci avevo provato, al pranzo di Natale. Mi aveva risposto un silenzio imbarazzato, gli occhi di tutti i parenti che guardavano prima me e poi la nonna. Lei aveva alzato le spalle, noncurante, e aveva giurato che mi stessi inventando tutto. Io avevo preso un boccone dell’arrosto che mamma mi aveva messo nel piatto e avevo iniziato a masticare. Poi, lo avevo sputato nel tovagliolo del servizio buono, quello ricamato a mano dalla bisnonna.
«Dai, scendi, devo passare anch’io». La nonna mi tallonava sulle scale e interrompeva il mio gioco di gigante. Obbedii. Afferrai con la mano destra il corrimano rosso scarlatto e mi aggrappai con forza. Poi, iniziai la discesa, uno scalino alla volta: il ticchettio del piede destro e il fruscio della suola sinistra.
«Non zoppicare! Quando sarai grande chi vorrà stare con te, chi ti amerà, se cammini male?» Avevo imparato a non rispondere, perché non è educato, soprattutto agli anziani. Finii di scendere con una goccia di sudore che mi colava dall’attaccatura dei capelli scuri.
L’amore era un concetto difficile da capire. I disabili non amano, e non sono amati.
Mi voltai e vidi la figura della nonna che scendeva, uno scalino alla volta. Mano destra al corrimano, sguardo verso le scarpe nere con i lacci rossi. Il ticchettio del piede sinistro e il fruscio della suola destra.
Tutta la nostra somiglianza si dissolse quando la nonna alzò gli occhi grigi e mi guardò. «Non si zoppica».
Mi sfuggì una lacrima che asciugai subito con la manica della maglietta.
«Piangono i deboli»
Avevo otto anni.
Quando vidi mio fratello all’uscita di scuola, mi pulsava la testa. Avevo quel dolore sordo che viene dopo un estenuante sforzo mentale. Mi avevano riconsegnato gli scritti della maturità, e avevo preso il massimo dei voti. Eppure, non ero felice, avevo solo fatto il mio dovere. Mi avvicinai all’auto parcheggiata davanti l’ingresso laterale della scuola. Gettai lo zaino sui sedili posteriori, richiusi la portiera e mi sedetti davanti. La patente non l’avevo ancora presa, così era mio fratello a darmi un passaggio all’uscita. Capii che doveva dirmi qualcosa dal modo in cui teneva il volante, anche a macchina spenta.
«Come sono andati gli scritti?»
«45 su 45»
Lui annuì, per niente stupito né impressionato. Lo guardai di sbieco, cercando di non voltare la testa.
«La nonna sta morendo». Lo disse tutto d’un fiato, in un sussurro. Poi respirò a fondo, i pettorali gonfi d’aria tirarono il tessuto della t-shirt.
Non risposi, e lui non aggiunse altro. Il sole splendeva nel cielo e io sudavo. Mio fratello accese il motore, e tra di noi ci fu solo il rombo della vecchia Panda che sputacchiava metano.
L’ambulanza sostava davanti al portone d’ingresso, al di là del nostro cancello. Mio fratello parcheggiò la macchina dietro, disse che l’avrebbe spostata al momento opportuno. Quale momento, non glielo chiesi. Guardai il portellone aperto. Non c’era la barella. Vidi la sirena spenta e cercai di ricostruirne il rumore nelle orecchie. Fallii. Dentro avevo solo vuoto e silenzio.
Era venuta a morire a casa sua. Le avevano concesso questa accortezza, al tramonto dei suoi ottantacinque anni. Mi diressi verso il suo appartamento, quello sopra il nostro. Salii le scale, un gradino alla volta, guardando le venature del marmo. Stavolta, non ci vidi presagi. Tutto quello che dovevo sapere era già lì davanti a me.
Trovai il nonno in cucina. Era seduto a capotavola, un piatto vuoto davanti. Era ora di pranzo, ma non mangiava. Si teneva la testa fra le mani e stava zitto, dalla camera da letto provenivano voci sommesse.
«Nonno», lo chiamai, e lui alzò la testa. I nostri occhi si incontrarono. I suoi erano colpevoli di colpe non sue. Non so cosa lesse nei miei.
«La scuola?»
«Bene», feci una pausa. «Ho preso il massimo»
«Ci ho scommesso con l’Anna al bar». Annuii, mentre lui cercava di sorridere. Poi fissò di nuovo il piatto vuoto.
«È di là»
Feci per imboccare il corridoio, quando sentii di nuovo la sua voce, spezzata.
«Isabella…»
Tornai indietro; lo guardai. Attesi.
«No, niente» concluse, una mano a scacciare l’aria. Seppi subito interpretare quel gesto: perdonala.
Entrai nella camera e mi parve un palcoscenico in allestimento. Sentivo le voci, ma non capivo le parole. Vidi i paramedici che stavano portando via la barella, mia zia, mia madre e mia cugina ai piedi del letto, anche loro in attesa che arrivassi. Poi, mi soffermai su di lei: era distesa, con la testa di riccioli grigi appoggiata su due cuscini, la respirazione rumorosa. Aveva gli occhi chiusi, e solo allora notai la pancia enorme. Mia zia fu più veloce: «Infarto all’intestino». Feci sì con la testa, come se avessi capito. Tuttavia, l’infarto lo collegavo solo al cuore. Ma il sangue risaliva, dai piedi al ventre fino ad arrivare ai polmoni. E lì, si sarebbe raggrumato, fino a strozzare il muscolo cardiaco.
La nonna già non parlava più. Mi avvicinai al letto e presi una sedia. Le altre mi lasciarono sola, uscendo dalla stanza a passi felpati, come se avessero paura di svegliare un neonato. Ci misi del tempo prima di guardarle il volto. Toccai con una mano il lembo del pigiama che indossava, quello azzurro a fiori gialli. Dava l’idea della primavera in fiore, della vita che nasce e cresce; e lei era lì a morire. Non si infanga la memoria dei morti, pensai. Ma cosa accade nel limbo?
Non avevo il coraggio di parlare, perché, in fondo, avevo troppo da dire. Quando aprì gli occhi e mi guardò, mi mancò il respiro. Sapevo che capiva, capiva ancora tutto. Ma la bocca rimaneva aperta a cercare aria, e la lingua, ormai consumata dal mughetto, se ne stava molle sul palato. Si sentivano i passeri cinguettare fuori dalla finestra. Fissai i suoi occhi per cercare qualcosa.
Non zoppicare. Nessuno ti amerà se non cammini bene. La tragedia. Il povero buon nome della famiglia. Disgusto. Scempio. Vergogna.
Pensai all’odio. A quello che si subisce e si prova. A quello per gli altri, che, in fondo, è solo una maniera per odiare se stessi. Cercai, come un fondo di caffè, di cavarmi di bocca un ti voglio bene. Fallii. Allora provai con una parola rassicurante. Fallii anche in quel caso. Alla fine, raschiavo il fondo, come fanno i cani nella terra, e tentai qualsiasi cosa.
Mi veniva in mente solo “disabile”.
Anche tu.
Anche tu.
Anche tu.
Non avevo smesso di fissarla. Quando una lacrima le uscì dall’occhio destro, mi alzai. In silenzio, me ne andai.
Lo scroscio dell’acqua accolse il mio corpo nudo. Avevo riempito la vasca fin quasi all’orlo. Chiusi gli occhi, appoggiando la testa contro la maiolica bianca. Pensai a tutto e a niente, nello stesso momento. Era come se l’acqua mi stesse lavando via i sentimenti. I vecchi e i nuovi. Come se fossi una sabbia fine e l’onda del mare portasse via tutto lo schifo che i bagnanti lasciano a riva.
Erano le 18.03, quando mio padre, nell’altra stanza, chiamò mia madre. In quel momento seppi. Non provai niente, nemmeno un fremito.
Mi sforzai, contrassi la fronte e le sopracciglia. Non uscì niente. Allora presi dell’acqua insaponata e me la passai sugli occhi. Si arrossarono, ma non vennero lacrime. Il trucco nero si sciolse, mi rimase sulle mani.
Mi sentii un essere immondo. Un mostro che non piange davanti alla morte. Con la mano cercai le cicatrici. Sulla schiena, sulle gambe, tra le dita dei piedi. Toccai con furore quella terra smossa e ne baciai i germogli. Per esistere, pensai, è necessario scontare la colpa dei padri. Questo è il potere degli addii.
Respirai profondamente. Mi inabissai nella vasca.

Racconto di Ilaria Parlanti
Editing di Elena Sofia Ricci


L’autrice

Ilaria Parlanti, classe 1997, nel 2021 pubblica il romanzo, “La verità delle cose negate” (Arsenio edizioni), e nel 2023 la silloge poetica “Parigi è stata uccisa” (Dialoghi edizioni).
Suoi racconti e poesie sono apparsi su Nazione Indiana, Il Loggione Letterario, Birò, Inverso-giornale di poesia. È tra i finalisti della seconda edizione del premio L’avvelenata.
È attivista per i diritti dei disabili. Collabora con Alley Oop, l’altra metà del Sole 24 ore.

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