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MOSTRI

Opera di Silvia Farina

Un brano per accompagnare la lettura:

Brano scelto da Mattia Sonzoogni, editor musicale

Teneva le mani giunte in preghiera, premute contro l’interno coscia. Le palpebre leggermente abbassate, gli occhi fissi su una venetta grigia dell’immenso tavolo di marmo bianco davanti cui era seduta. Nella stanza asettica era presente un mobilio senza personalità, da cartellone pubblicitario. Un profumo forte, da uomo, allargava le narici di chi entrava e si mischiava all’odore ripugnante del caffè freddo di macchinetta. Faceva caldo, un caldo afoso, malgrado l’aria condizionata. Entrando, S. aveva scorto il climatizzatore, ma il suo corpo non ne aveva ancora percepito il fresco. Dal labbro superiore le colavano in bocca minuscole gocce di sudore che ogni tanto asciugava strofinando le labbra l’una contro l’altra. Si malediceva per l’abbigliamento scelto quella mattina: jeans attillati che ora si appiccicavano alla pelle come una ventosa e scarpette da ginnastica che le facevano prudere la pianta dei piedi. Aveva avuto fretta, troppa, nell’ingurgitare quel caffè al volo prima di uscire di casa. Ora il senso di nausea le attanagliava lo stomaco, e si mischiava con l’amara sensazione di doversi trascinare un corpo che faceva fatica a stare al passo con la mente.

L’uomo di fronte a S. scriveva al computer. Era seduta lì da almeno un quarto d’ora ma non l’aveva ancora degnata di uno sguardo. Lei l’osservava senza alzare gli occhi dal tavolo, cercando di farsi piccola, trasparente, sperando che succedesse qualcosa che ritardasse la loro conversazione, qualsiasi cosa pur di non doverlo affrontare. Tutt’a un tratto l’idea di elencare ancora una volta le sue esperienze lavorative, i titoli di studio e i corsi professionali,  le formazioni extra curriculari, i tirocini pagati e non, gli hobby, divenne per S. così assurda che la fece sentire esausta. Era tutto scritto sul suo curriculum, incastrato a forza in una sola pagina come loro avevano richiesto e cosa c’era? Non si fidavano? A ogni colloquio aveva l’impressione di dire tantissimo sul suo conto, quasi fino a perdere il controllo, come se si trattasse di una confessione intima sulla sua vita e sulle sue scelte,  per poi cosa? Trovarsi davanti a un interlocutore che la guardava con compassione, come se non fosse abbastanza. Come se non fosse nulla. Perché ogni esperienza accumulata sembrava sottrarle qualcosa invece che aumentarne le potenzialità?

Lui aveva i capelli radi, forse troppo per la sua giovane età, e gli occhi stretti nella posa di chi si sforza di leggere su uno schermo. La bocca larga sigillata, la mascella così serrata che S. pensava non si sarebbe aperta nemmeno se avesse fatto leva con tutta la sua forza. Continuava a scrivere e a non guardarla. Ogni tanto alzava una mano dalla tastiera e tamburellava pensieroso sul tavolo di marmo e il suono usciva ovattato, a malapena udibile ma, per qualche strano motivo, spaventoso.

S. ora tremava. Il caldo aumentava ma il suo corpo sudato rabbrividiva. Datti una calmata, pensava. Il piede sinistro, adesso, compiva rapidi movimenti a scatti ma lo stridere delle suole di gomma sul pavimento aveva alterato l’universo sonoro della stanza. Ora lui non scriveva più. Lei smise subito di muovere il piede e con una mano nervosa iniziò a lisciarsi una ciocca annodata. La stanza piombò di nuovo in un silenzio robotico, innaturale tranne che per il ronzio leggero e persistente del condizionatore. Lei cercava di ripassare mentalmente le risposte alle domande che non arrivavano e sentiva scivolare lungo il collo grosse gocce di sudore.

Lui riprese a battere sulla tastiera come se all’improvviso volesse annotare qualcosa di così importante da non poter essere rimandato, come se lei non fosse seduta di fronte a lui e la sua presenza creasse un fastidio inatteso. Ruppe quel silenzio carico di disagio ma non il mutismo che aveva impostato fin dall’inizio del loro incontro. Le mani di S. non sapevano più dove posarsi, dai capelli passavano ad asciugarsi il collo e da lì tornavano a nascondersi tra le cosce.

Poi un vociare sempre più forte la fece voltare di scatto verso la porta a vetri alle sue spalle. Alcuni impiegati in giacca e cravatta erano intenti a fissarla con sguardo derisorio. Portavano occhiali spessi che sbattevano tintinnando contro il vetro e le loro facce deformate erano incollate al vetro. Notò orologi sproporzionati su polsi minuscoli e mani troppo morbide per l’età avanzata. Puntavano il dito contro di lei e ridevano sguaiati. S. tornò a voltarsi verso di lui e implorò al suo cervello di non pensarci. Un rumore metallico la fece voltare di lato. D’istinto mise le mani a coppa sulle orecchie per coprire il suono. Vide le bocchette del condizionatore iniziare a sbattere l’una contro l’altra. Ma no, era solo il frutto della sua fantasia, che non avrebbe rovinato tutto anche stavolta. Davanti a sé, però, scoprì terrorizzata la bocca larga di lui, ora deformata in un ghigno spaventoso che schiumava bava e rabbia e frustrazione, che urlava e si sfogava contro di lei, vomitando parole confuse e di odio, parole sconnesse e cattive e ce n’erano così tante in quella bocca che sembravano solide, uscivano e cadevano a terra con un tonfo e non finivano mai. Incapace. Sbam. Parassita. Sbam. Approfittatrice. Sbam. La sua mascella dai denti aguzzi sbatteva ritmicamente davanti al suo viso, provocando un rumore sordo che le penetrava il cervello. S. cadde dalla sedia urtando il tavolo che le rovesciò addosso una pila di fogli. Cercò di avanzare a quattro zampe facendosi strada verso la porta, ma il capannello di gente che si era formato era accresciuto e l’uscita bloccata. Bocche enormi schiacciate al vetro sghignazzavano crudeli, fauci spalancate pronte a inghiottirla si facevano largo per ridere di lei. S. cercava di liberarsi dai faldoni, da pagine affilate che intanto le tagliavano la carne tenera facendo zampillare a fiotti il sangue rosso vivo. 

Il condizionatore ora fischiava come una nave in partenza e sparava aria calda dritto davanti alla sua faccia, bruciandole la pelle. S. provò a spostarsi e scappare ma quel coso strillava nelle sue orecchie. Là fuori dalla stanza i mostri la guardavano ghignando e puntavano il dito verso di lei. Nell’aria si spanse odore di zolfo e S. sentì salire un flusso dalla bocca dello stomaco che la obbligò a inginocchiarsi e vomitare. Provò di nuovo ad alzarsi per fuggire. Era fuori di sé. Ansimava e la stanchezza stava prendendo il sopravvento. Il sangue delle sue braccia ferite si mischiava al vomito mentre continuava a scivolare nel disastro che lei stessa aveva creato. Intravide lo sbrilluccichio di un orologio enorme, sempre più vicino al suo viso. Poi ancora di più. Ora lo aveva addosso. Stava per colpirla. Chiuse gli occhi d’istinto in attesa del colpo che l’avrebbe uccisa. Svenne.

Racconto di Veronica Nucci
Editing di Martina Marrone


L’autrice

Appassionata di lingue straniere, dopo una laurea in Traduzione ha vissuto a Cardiff, Bruxelles e attualmente risiede a Parigi, dove lavora nel digital marketing. Usa la scrittura per dominare la sua rabbia e denunciare le ingiustizie. Alcuni suoi racconti sono apparsi su diverse riviste letterarie (Rivista Blam, Eisordi, Super Tramps Club, The Bookish Explorer, Quaerere, Il Timoniere). Ha frequentato, e frequenta tutt’ora, corsi di scrittura creativa e si è formata per diventare editor e copywriter. Collabora, ormai da anni, con la rivista Quaerere come editor e con i lit-blog Exlibris20 e La bibliothèque italienne come recensora e articoltista.

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