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MAESTRALE

Opera di Silvia Farina

Un brano per accompagnare la lettura:

Brano scelto da Mattia Sonzogni, editor musicale

Camminavamo in fila indiana sulla sabbia ancora fresca. Mio fratello Davide guidava la fila. Aveva appena terminato il primo anno delle medie, per cui era un esperto in parolacce. A detta degli adulti della nostra famiglia “aveva ancora tanto da crescere” e un consistente strato di adipe, tipica morbidezza puerile, attendeva di distribuirsi omogeneamente sul corpo. A seguire venivo io, nove anni e tre quarti, una mocciosetta pelle e ossa particolarmente fifona. E poi c’era Lara, nostra sorellastra e la più piccola del gruppo. Era cresciuta in Belgio, poiché sua madre si era trasferita lì per condurre una ricerca decennale sui rapporti fra Belgi e Fiamminghi. Per questo motivo aveva la fortuna di essere bilingue e in quelle circostanze era designata come nostra traduttrice. I nostri genitori, infatti, amavano la Francia, e una volta l’anno ci guidavano attraverso i suoi campi di lavanda, o negli ebbri borghi della Borgogna, oppure a mangiare un pezzo di formaggio puzzolente in un autogrill della Normandia che, a detta loro, era l’esperienza più autentica della Francia Nord-Occidentale che potessimo fare. Ancora oggi sospetto fosse solo un modo economico per sfamarci.
Quell’estate era il turno della Corsica, isola scossa dal Maestrale, e proprio per questo motivo fummo iscritti ad un corso di vela per ragazzi.
– Devi tradurre tutto, non solo quello che ti pare. Capito? – raccomandò mio fratello a Lara, inerpicandosi su una duna di sabbia.
– Sì, lo so – rispose lei, con la solita vocetta sognante.
Poco più avanti, sul bagnasciuga, erano disposte una decina di barche a vela in miniatura. Venti ragazzini aspettavano in silenzio, ritti come dei bastoncini e osservati da una donna con la pelle pallida e punteggiata da macchie rosse sugli zigomi. Fu subito chiaro che stavano aspettando noi. Due Italiani e una mezza Belga: eravamo carne da macello per i Francesi.
Ah – disse lei vedendoci, scarabocchiando un foglio di carta – les italiens – .
Sul loro viso si dipinse un ghigno. Alcuni calzavano eleganti scarpe da vela, il che li faceva somigliare a ricchi padri di famiglia al barbecue domenicale, solo che al posto dei pantaloni in tweed esibivano pallide gambette puerili.
Je m’appelle Amandine – disse l’istruttrice.
– Io mi chiamo Amandine – tradusse Lara.
– Ma che cavolo di nome è? – esclamò Davide.
– Shh sta’ zitto, o Amandine ci sgriderà.
Amande significa mandorla – gli spiegò Lara. Fu così che cominciammo a chiamarla Mandorlina.
Seguì una fitta spiegazione sulle componenti e sul funzionamento della barca, ma se la fortuna di Lara era di essere bilingue, la sua sfortuna era quella di non essere particolarmente sveglia. Così solo a fine corso scoprimmo che la traduzione appropriata di floc, ovvero il nome di una delle due vele, era “il fiocco”, e non “la foca”, come ci aveva detto lei in un momento di confusione.
Durante la prima uscita in mare, imbarcammo così tanta acqua che mandarono un motoscafo a prelevarci prima che affondassimo; il giorno seguente rimanemmo fermi in mezzo al mare, senza prendere velocità, mentre le altre barche ci giravano intorno come squali affamati. I Francesi ridevano così tanto che si dovettero tenere all’albero maestro per non finire in acqua. Fu nuovamente scomodato il motoscafo. Al nostro ritorno Mandorlina borbottò qualcosa in francese, e quando chiedemmo a Lara che cosa avesse detto, lei rispose che era meglio che non lo sapessimo.
Quella sera mi buttai drammaticamente fra le braccia di mia madre, piagnucolando su quanto fossero cattivi i Francesi e supplicandola di risparmiarci le lezioni dei giorni successivi.
– Oh cara, non penso proprio sia una buona idea – disse accarezzandomi la testa.
– Ma mamma, tu non hai idea… quelli ci sfottono in continuazione – rincarò la dose Davide. Lei gli rivolse un’intensa occhiata, ma quella scena dovette risultarle così patetica che si risparmiò di rimproverargli l’espressione poco forbita.
– Ragazzi, vedrete che le cose prenderanno una piega migliore. Non demoralizzatevi per una sciocchezza simile! E se le cose non dovessero migliorare, potrete dire di averci almeno provato.
Pensai che mi sembrava un gran bel mucchio di cavolate. Solo il giorno prima proprio lei aveva tenuto il broncio tutta la sera poiché il sommelier della bettola in cui ci avevano portato a cenare le aveva comunicato che la bottiglia di Bordeaux dell’86 che tanto voleva non era disponibile.
E infatti non assistemmo a nessun cambiamento nelle nostre prestazioni nautiche.
L’ultimo giorno la situazione era la stessa nonostante i venticinque nodi di Maestrale. Eravamo fermi in mezzo al mare, la barca saliva e scendeva cullata dalle onde che s’infrangevano mollemente contro lo scafo della barca ma senza provocare alcuno spostamento. Mandorlina sbraitava dalla sua barca.
– Ha detto di tendere entrambe le vele il più possibile… – disse Lara, tirando le corde – e di timonare per accogliere il vento…– manovrai il timone. Aspettammo qualche secondo. Niente. Ci sedemmo, attendendo sconsolati l’arrivo del motoscafo. La barca era così piccola che a malapena conteneva tutti e tre.
– Che palle! – esclamò Davide.
– Perché ‘sto coso non va avanti?
– Aspettate! – avevo cominciato a sentire le onde infrangersi sullo scafo.
Filammo ai nostri posti, io al timone, gli altri due alle vele.
– Drizza! – le vele si gonfiarono. Improvvisamente prendemmo velocità. Il vento cominciò a scompigliarci i capelli, poi divenne sempre più aggressivo, deformandoci le bocche e schizzandoci sulle guance gocce di mare che colavano lasciando scie salmastre.
Davide alzò le braccia verso il cielo: – Les Italiens ce l’hanno fatta! Beccatevi questo brutti mangia lumache! – e prese il comando del timone, zigzagando sulla superficie del mare.
– Guardate! – Lara indicò i Francesi sulle loro barche lontane, che si sbracciavano nella nostra direzione. Prese a salutarli anche lei.
Ma non ci stavano salutando, né festeggiando la nostra vittoria. Ci avvertivano: si avvicinava infatti una barca, una vera barca a vela, la cui traiettoria era perpendicolare alla nostra.
Anche gli altri due si accorsero del pericolo.
– O merda! Lara digli di cambiare traiettoria!
– Non mi sentiranno mai!
– Cambiamo noi traiettoria!
Manovrai il timone, ma il vento era troppo prepotente.
– Dobbiamo lavorare con le vele! – urlai.
– Cazza la randa, cazza la randa!
– Non è il momento di dire parolacce, Davide!
– Ma si dice così, lo giuro!
– Non devi cazzare la randa, devi cazzare la foca! – gli disse Lara, tenendosi all’albero per non cadere, vista la velocità che ormai avevamo raggiunto.
– Cazza la foca, cazza la foca!
Aiut! Aiut! – urlava Davide, che in un anno di francese a scuola aveva solo imparato a contare fino a dieci.
Ma era troppo tardi. Portai le braccia sopra la testa. SBAM. Per qualche secondo tutto tacque, solo il vento sibilava. Alzai lo sguardo. Il loro scafo si era arenato contro la nostra prua. I passeggeri dell’altra barca si erano portati le mani sulla bocca, sconvolti.
Incontrai lo sguardo degli altri due: eravamo tutti illesi. Ci fissammo con gli occhi sgranati, increduli su quanto fosse accaduto.
– Mandorlina ci ucciderà – sussurrai.
Ma poi Davide alzò le braccia, sorrise e gridò a squarcia gola: – Les italiens ce l’hanno fatta!
Lara sollevò il pugno verso il cielo e urlò di gioia, io scoppiai a ridere.
Les italiens ce l’avevano fatta.

Racconto di Elena Affubine
Editing di Martina Costanzo


L’autrice

Elena Affubine nasce nel 2001 e vive a Torino, dove tuttora studia scrittura creativa. La sua passione per la scrittura affonda le radici nell’amore per la lettura, nato sin dall’infanzia. Con gli anni ha sviluppato un crescente interesse anche per il cinema, settore in cui vorrebbe specializzarsi e in cui vorrebbe lavorare.

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