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LA PROMESSA

Opera di Silvia Farina

Un brano per accompagnare la lettura

Brano scelto da Mattia Sonzogni, editor musicale

Quando nonna mi dice che nella nebbia si nascondono i fantasmi, io ho undici anni. Siamo sedute sul tram arancione, quello collegato a un filo sospeso nell’aria. Oltre al cappotto pesante, arrotolata sulla testa ho una sciarpa che profuma dei suoi vestiti; non è mai soddisfatta di come mi asciugo i capelli, nonna, e ha timore possa venirmi la cervicale.
Piove, quando me lo dice, e sul finestrino le gocce fanno apparire Torino distante e distorta, come in un film. Quando nella carrozza entra l’odore delle patatine di McDonald’s, mi viene una gran fame. Per mangiare devo aspettare di arrivare a casa, però: nonna non mi porta più nessuna merenda. Ha smesso quando è morto nonno.
Il tram sta svoltando a destra quando nonna mi dice che nella nebbia si nascondono i fantasmi e che non vanno disturbati. Le porte da cui siamo salite non si sono chiuse perfettamente e, dagli scomodi seggiolini gialli, le vediamo tremolare. Una striscia di città sbuca tra di loro, scura di notte e umida di pioggia.
Nonna dice: “Non c’è pace, là fuori”.
Poi, scuotendo la testa, alza l’indice, proprio come quando mi vuole insegnare qualcosa. “Se non si è buoni e cari, Oriana, ci si trasforma in fantasmi. In quelli che stanno dentro la nebbia.”
Io la guardo: di un biondo chiaro e soffice, fermati da due spillette nere vicino alle orecchie, i capelli sono in ordine, come di consueto, e gli abiti, quelli eleganti per andare in centro, stirati il pomeriggio, le fasciano il corpo minuto e dritto come un palo. Gli occhi sono spalancati, ma non mi guarda. Nella carrozza fa freddo e ci siamo solo noi.
“Intendi i fantasmi di carnevale, nonna?”
“I fantasmi veri, Oriana. Inconsistenti e lebbrosi, con le giunture che scricchiolano e le teste vuote in cui puoi vederci il cervello.”
Allunga il collo e stringe tra le mani il tessuto scuro della giacca; io trattengo il respiro.
“I fantasmi. Stanno là, in quella nebbia grigia. E quando senti il freddo nelle ossa significa che ne stai attraversando uno, che ti sta mangiando.”
Irrigidisco le spalle. “I fantasmi come… come Casper?”
“Più cattivi, più arrabbiati. Non li stuzzicare mai, quei dannati! Vorrebbero finire in cielo ma sono costretti a rimanere qua, sporchi, maledetti e odiati da tutti meno che dai ratti.”
Scuoto la testa e mi porto le mani sulla sciarpa, sprofondandoci dentro ancora un po’. Fuori, mentre siamo fermi al semaforo, c’è così tanta nebbia che non si vedono neanche i lampioni, ma solo palle di luce soffusa. Forse sono quelli, i fantasmi. Distolgo lo sguardo. “Non credo che…”
“E se non si fa i bravi, se si fanno furfanterie, si diventa fantasmi e si è dannati per l’eternità. Lui questo lo sapeva. Lo sapeva.”
“Lui… ma tu li hai visti, nonna?”
Nonna chiude gli occhi, mantenendoli così per un lungo lasso di tempo. Intanto le luci dei lampioni scorrono sul suo viso, disegnano terribili ghirigori d’ombra. Poi nonna gli occhi li riapre; sono bianchi, tutti bianchi. “Io so cosa significa rimanere intrappolata, Oriana. E voglio andare in cielo”.
Annuisco. “Anche io voglio andare in cielo, nonna. Ma questi fantasmi… possono farci del male?”
“Quello che preferiscono è urlare e rincorrere la gente, oppure rimangono a guardarla senza mai distogliere gli occhi, facendola impazzire. Sono cattivi, cattivi fino al midollo.”
Io la guardo, pendo dalle sue labbra. Vorrei spalancarle le braccia, sciogliere l’incastro di dita che tiene stretto in grembo e buttarmici dentro, al sicuro. Qualcosa me lo impedisce: forse i suoi occhi, così chiari e simili a quelli delle biglie azzurre; o forse proprio le sue labbra, umide e tremolanti, perfino quando zitta, in attesa di una mia risposta, le tiene serrate.
È allora che nel tram le luci si spengono, una brusca frenata ci sbalza in avanti, obbligandoci ad aggrapparci ai sedili. Nonna si rizza in piedi e urla: “E’ il fantasma, Oriana! Laggiù, sta scappando! Guardalo!”.
Con le dita mi indica fuori dal finestrino, dove la nebbia si fa presenza, pesante e densa. Non abbiamo ancora attraversato il ponte oltre il quale abitiamo e, al di là del fumo che sembra seta sul mondo, l’impronta brillante di un edificio rettangolare è l’unica traccia della città. Nonna dice: “Guarda come corre, guarda come se ne va! Bestia! Fantasma del malaugurio! Corri, corri, maledetto!”.
Io guardo, guardo, guardo, e più guardo più ho paura di vedere; più guardo e più, però, non vedo. Suona un clacson, lo sento forte e chiaro, e un alone rosso è comparso in mezzo al bianco. Che sia quello, il fantasma di nonna?
Poi le luci si riaccendono e, come se l’autista non si fosse accorto delle urla di nonna, il tram riparte. Lei si siede, si tocca i pendenti, intreccia di nuovo le mani tra di loro, sulla gonna, e comincia a fare su e giù con la testa. Dapprima lo fa piano, come confermandosi un pensiero, ma quando, decisa, il movimento prende il via, sembra cantare una canzone.
“Sono delle bestie di Satana”, dice. La testa continua a dondolare.
“L’ho visto, nonna. Faceva paurissima”, rispondo. Poi poso la mano sulle sue, fredde e contratte.
Con lo sguardo ancora perso nella nebbia, nonna dice: “Fai la brava, eh?”.
Le dico di sì, nonna, certo, come mi insegni tu, e le stringo la mano sulla pelle sottile. “Te lo giuro, nonna: non diventeremo dei fantasmi, noi due. Siamo troppo buone.”
Vorrei chiederle tante cose, ma la sua calma mi è cara e non capisco come inserirmici. Vorrei chiederle se il fantasma che ha visto era nonno, se stava cercando di venire da noi, magari da me, per svelarmi finalmente l’arma segreta per vincere a Ramino. Me lo aveva promesso, prima di andarsene; voleva che diventassi brava come lui. Forse lo aveva promesso anche a nonna? Potrei non avere paura della nebbia, se nonno fosse diventato un fantasma. Se era lui, nonna, perché eri tanto arrabbiata?
Gli edifici di Torino scorrono attraverso i finestrini. Il tram ci fa sobbalzare e le porte sono tutto uno sbatacchiare. Ho fame, ma la prossima fermata è la nostra. Io stringo forte la mano di nonna, anche se la sua non stringe la mia. Vorrei dirle di guardare me e non più fuori, di concentrarsi sul reale. Ma quando scendo e osservo la nebbia, nemmeno io capisco se quello che vedo è un fantasma, mio nonno o la paura di non essere sola.

Racconto di Giulia Cappelli
Editing di Martina Marrone

L’autrice

Giulia Cappelli nasce nella primavera del 1995 tra i pioppi e gli ulivi della campagna fiorentina. Conosce la scrittura presto, trascrivendo d’estate interi passaggi delle sue storie preferite. Appassionata di antropologia e di altrove, si perde per molti anni tra fughe e dispersioni. A Torino ha trovato una casa che le ha permesso di ritornare alle cose che contano, e da allora scrive. Se potesse fare una cosa soltanto, sarebbe bere camomilla con la sabbia tra le dita.

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