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IL PAESE SOLLEVATO DA TERRA

Opera di Silvia Farina.

Un brano per accompagnare la lettura:

Brano scelto da Mattia Sonzogni, editor musicale.

Mentre riprendevo fiato, mi calò addosso un’ombra. Mi voltai e vidi un uomo vestito elegante, come per un appuntamento. Se ne stava in piedi sulla panchina, piegato per guardarmi negli occhi con il suo sguardo gentile, in attesa di qualcosa. Mi aveva indicato due pietre a metà del vicolo che si affacciava sulla piazzetta dove mi ero ritrovata correndo via da Lorenzo, il terribile figlio del collega di papà, che da ore mi tartassava con giochi di contatto.
Una donna era uscita dalla porta della propria casa e guardava l’uomo.
– Buongiorno Signor Valdo, le hanno di nuovo spostato le pietre? –
Lui alzò occhi e braccia al cielo, come a invocare un aiuto divino contro degli imprecisati birboni.
Avevo raccolto le pietre, che sembravano essere state calciate via da qualcuno, e mi ero voltata a osservare la donna che sorrideva complice al signore elegante. Lei mi disse:
– Grazie signorina, gliele posi a distanza tra la panchina e quel muretto. –
Feci quanto mi era stato detto dalla donna e guardai in alto verso il signore. Lui mi sorrise in controluce, mi posò una mano sulla spalla per riconoscenza, poi saltò con il piede destro su una pietra, con il sinistro sull’altra e se ne andò sul muretto, dove continuò il suo percorso, un piede dietro l’altro, verso chissà dove.
Nel frattempo Lorenzo mi aveva ritrovata e mi aveva stretta a sé, come se avessi avuto intenzione di sfuggirgli ancora, mentre non avevo neanche accennato a muovermi, imbambolata com’ero a guardare quell’uomo svanire dietro a un palazzo. Anche la signora era rimasta a osservarlo con aria beata, prima di ridestarsi, guardarsi intorno, volgermi un cenno di saluto e tornare dentro casa. Tornai a guardare in direzione del muretto, ma il Signor Valdo era scomparso alla vista.
La mia pausa era terminata, mi trovavo di nuovo tra le grinfie del mio aguzzino, che mi riportò nel parchetto da cui gli ero fuggita. Lì ricominciò con il suo gioco: mi indicava le paperelle nel laghetto e si avvinghiava a me ogni volta che una si dirigeva verso di noi, dichiarando che mi avrebbe protetto e dicendomi di non aver paura. Io non avevo paura neanche per un corno, ma che potevo fare? Cercai i miei con sguardo sconfortato, erano seduti al tavolo di un bar poco lontano e sembravano divertirsi un mondo. Mamma mi vide e si sbracciò a salutarmi. Non credo che fosse un saluto di conforto, altrimenti non avrebbe sorriso così tanto. Bastava poco per capire che l’unico modo di aiutarmi era portarmi via da lì.
Fortunatamente capitava di incontrarci con la famiglia di Lorenzo solo una volta, massimo due l’anno. Ci vedevamo a metà strada dalle rispettive città, e visitavamo di volta in volta uno dei paesini di quella verde provincia dell’alto Lazio, che erano l’ideale per accogliere incontri; si potevano girare tutti in mezza giornata ed erano discretamente belli, senza troppe distrazioni.
Crescendo, Lorenzo era diventato meno appiccicoso, anzi, tutto un tratto, quando entrambi avevamo compiuto quattordici anni, era diventato timidissimo. Finalmente aveva smesso di tartassarmi e potevo godere del panorama e dell’aria fresca anche io. I genitori di Lorenzo erano simpatici, mi piaceva stare al tavolo con loro e i miei, e ascoltarli parlare di tutte quelle cose da grandi. Era incredibile quanto riuscissero a parlare. Non si fermavano mai, e non è che non si sentissero per telefono durante l’anno per aggiornarsi.
Io e Lorenzo, ora che non giocavamo più, per mia fortuna, ci ritrovavamo a guardarci senza avere nulla da dirci. Mi affascinava l’idea che gli adulti potessero parlare per ore con entusiasmo senza dirsi nulla che già non sapessero. A un certo punto il mio gioco personale, da figlia unica, era stato camminare su e giù per la mia stanza di fronte a uno specchio, senza calpestare gli interstizi delle mattonelle, simulando discorsi da adulta: scuola, tempo, famiglia e politica. Avevo scoperto di poter parlare di tutto, avevo anche delle idee originali rispetto a ciò che sentivo al telegiornale. Insomma, mi stavo preparando a diventare una grande relatrice… o un’equilibrista.
Anni dopo intrapresi gli studi di giurisprudenza, per poi lasciarli nel giro di un paio di semestri per cambiare percorso universitario e passare a lettere, dove le parole potevano fluire più libere e nessuno mi giudicava.
Lo so, non è molto normale, ma in fondo capita a tutti di giocare con i propri passi e di riconoscere schemi tracciati sul terreno. Io avevo sviluppato nel corso degli anni questo tic per cui dovevo seguire dei percorsi quando camminavo su suoli in qualche modo segnati. Ma ero diventata brava a muovermi con disinvoltura negli ambienti che frequentavo spesso. Molti miei colleghi non si sono neanche mai accorti della mia fissa.
Se ne accorse però Paolo. Lo incontrai un giorno in cui la facoltà era particolarmente vuota e io molto nervosa, e non prestavo attenzione a mascherare il mio tic. Mi conobbe proprio per quello e la cosa lo fece impazzire di curiosità. Per i nostri primi appuntamenti mi invitava in posti che aveva prima attentamente ricercato, per offrirmi percorsi originali tracciati da quei segni che condizionavano il mio andamento e sfidavano il mio equilibrio. Adorava trovare luoghi. Divenne uno dei più famosi location scout del cinema italiano. Si prodigava in sopralluoghi: prima in tutto il Lazio, poi in tutta Italia, infine nel mondo. Ho fatto molti viaggi con lui, nel corso della nostra fortunata relazione.
Fu grazie a lui che un giorno ritrovai qualcosa che, senza saperlo, stavo cercando. Un piccolo paese, diventato improvvisamente un’attrazione. Sul cartello che dava il benvenuto ai visitatori, era stata aggiunta una scritta: “Il paese sollevato da terra”. Non lo riconobbi subito, ma notai la foto che campeggiava di fronte all’ufficio turistico, raffigurante un uomo in piedi su un muretto con sullo sfondo il mare. La didascalia recitava “100 km senza toccare terra: il signore coi piedi leggeri arriva al mare con l’aiuto della comunità cittadina.”
Accanto c’erano foto di uomini e donne che si piegavano a poggiare mattoni di fronte ai passi del signore, costruendo una passerella per lui, che aveva scommesso di non toccare più il suolo con i suoi piedi. A quanto pare gli piaceva fare scommesse assurde, e le aveva vinte tutte; fino all’ultima, che però non gli aveva permesso di scommettere ancora, quella di non parlare più. A lungo andare, il paese aveva finito per partecipare al suo eccentrico stile di vita e aveva fissato a terra le pietre e le pedane che permettevano all’uomo di percorrere in lungo e in largo il paese. E lo stesso percorso veniva ora riproposto ai visitatori, comprese proprio quelle due pietre, che riconobbi inaspettatamente.
Misi un piede su una, uno sull’altra, saltai sul muretto tenendomi aggrappata alla ringhiera e potei finalmente seguire i passi del signor Valdo, al cui silenzio e alla cui stranezza allora non avevo fatto troppo caso, ma il cui incontro aveva segnato la mia vita quasi senza che me ne fossi resa conto.

Racconto di Eleonora Sposini
Editing di Martina Costanzo


L’autore

Eleonora Sposini è originaria del viterbese, si è laureata in Filologia Moderna, poi ha passato un anno in biblioteca e un altro a leggere libri per ragazzi e promuovere la lettura. Ora insegna lettere in giro per l’Italia, seguendo il flusso del precariato. Ama la letteratura, il cinema, l’arte e si alimenta di tutto ciò che le permette di esprimere e rielaborare il caos che ha dentro. Ha pubblicato un racconto e un’illustrazione su due numeri della rivista Bomarscè, ha riempito casa di quadri e le sue shopper di simboli, nella speranza che prima o poi incontri qualcuno che sappia aiutarla a interpretarli per aprire chissà quale portale.

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