I – Alla stazione di Bologna
La carezza pallida dell’alba iniziava a nudare quieta i colori dei binari vuoti e dei marciapiedi lucidi.
Davide e Giulio, due cani bastardi, erano sdraiati sul lastricato lercio della stazione dei treni di Bologna: rumore di freni d’acciaio, fumo, sudore di turisti mattinieri e pendolari, piscio negli angoli. Sembravano attendere qualcosa: un’elemosina d’osso dalle mani di un passante o forse il risveglio dei loro compagni umani randagi. In superficie parevano aspettare un miracolo.
Erano miracolo, in realtà.
La vita non scorreva loro addosso, come agli uomini che si rincorrono in stazione, il turista che si illude di eternare un ricordo con la sua Canon o il pendolare che finge di esistere inseguendo i suoi impegni. Non attendevano che la vita per loro accadesse, accadeva in loro la vita.
Così distesi si osservavano e sembravano comunicare qualcosa in un linguaggio cosmico. Muti parlarono; custodivano dentro ogni forma del linguaggio. Da quei segni nacque questo dialogo.
– Medita Giulio. Mettiti solo. Fissa il vuoto e vedi. Lì c’è tutto.
– Sì. Lo devo vedere in faccia il vuoto. La mia faccia nel vuoto. La mia facciavuoto.
– Bravo, così ti voglio. Lo sento che sei veramente tu. Dobbiamo tornare a creare e distruggere con l’ansia dell’eternità e la pace dell’istante.
– Ho ancora bisogno di storie e poesia.
– Per me è l’aria, l’amore, tutto ciò che mi serve per essere nel senso più alto. Avevo smesso e mi sentivo sempre vuoto come una cosa inutile.
– Come me adesso.
– Appena ho ripreso a scrivere, giuro, il mondo è cambiato totalmente. Ho pianto come un bambino. Sentivo tutto di nuovo per la prima volta. Avevo congelato le emozioni, le tenevo tutte dentro. E ho accumulato così tanta morte dentro che adesso la devo buttare fuori perché ho davvero rischiato tanto, ma tanto. Questo libro che sto scrivendo è proprio l’atto magico attraverso il quale butto via tutta la mia morte.
– Ma come superare questa situazione di stallo? Come hai fatto?
– Non esiste un metodo. Io credo di essere arrivato al limite estremo. A quel punto lì in cui puoi solo scrivere. O scrivi o muori.
– Io sto morendo.
– Va benissimo così.
– Davide, sto morendo.
– È giustissimo, ne sei consapevole. È tutto. È giusto, amico. Fissa la morte. Fissa il vuoto senza paura, senza un cazzo di paura. Cerca il limite e spingi. – – E poi?
– Poi è tutta luce. Devi morire. Muori. Veramente. Muori senza paura.
– E se mi acceco? E se non supero il buio?
– È questa la chiave. Il buio non è mai solo buio. Il buio è luce nel suo limite massimo. Come la luce è buio quando arriva al suo estremo. Muori.
– Cristo sì. Come Gesù. Tu sei Gesù. Posso essere Gesù.
– Ti voglio bene.
– Dobbiamo scrivere insieme e fare arte vera. Pittura video poesia tutto.
– Ma dobbiamo fare l’arte vera, quella veramente vera. Quella di chi è morto ed è tornato, e sa tutto.
– E lo sputa addosso alla gente o mente una verità proibita. Sfancula tutto.
– Cristo sì.
Finito il dialogo, ma mai iniziato, mai pronunciato e solo per comodità racchiuso qui, nei limiti concessi dalla Forma, i due bastardi lasciarono il loro giaciglio di pietra seguendo l’andare stanco dei compagni.
Li attendevano l’erba da fumare, i colori dei sogni sotto i portici ingialliti dal piscio, le chiacchiere dei pazzi, le insofferenze degli studenti, il ritorno promesso o la stasi in uno sguardo, il cielo di piazza Verdi, Dio, la parola urlata fra le costole quasi vuote.
II – Parco della Montagnola
– Vivere?
– Cioè?
– Vivere, cos’è vivere? Viviamo noi?
– Ci sono più cose da tenere in conto, caro amico. Il linguaggio, a volte, si rivela opaco, come in questo caso. Nella pretesa di semplificare la comunicazione e renderla sintetica, in vero complica la realtà e proietta un’ombra sulla Natura.
– E allora essa finisce coll’apparire misteriosa. Dunque, cos’è vivere?
– Pare misteriosa, ma è lì di fronte ai tuoi occhi. Afferrala. Esisti con lei. Non lasciarti ingannare dalla trappola del linguaggio.
Già il primo sole aveva squarciato lo spazio, modificando ombre e colori. L’odore dei marciapiedi roridi di umori notturni adesso si levava quieto alle radiazioni di quella nostra stella, centro e periferia dell’immaginazione.
Due cani randagi non hanno null’altro che il sole al mattino e quell’odore di notte come nutrimento. Certo, gli avanzi del pasto di uno dei loro compagni clochard o dei resti rovistati in un cassone dell’immondizia possono dare sollievo agli stomaci vuoti e sostentamento alla carne asciutta, ma ciò che sazia davvero sta altrove.
Ah, se il benessere si misurasse in squarci di sole al mattino e profumo di stelle! Quanto poco conterebbero il prodotto interno lordo e le oscillazioni delle borse, gli spiccioli virtuali caricati sul server di una banca e la miseria racchiusa nel gesto di un bonifico!
Davide e Giulio non avrebbero mai saputo l’effimera insignificanza di tali algoritmi umani, troppo poco umani. Altri cieli, ben più consistenti, avrebbero conosciuto nel loro girovagare senza meta. Spesso, quel che è considerato labile dai più – un tramonto, una brezza, il conforto di un amico – si rivela la più solida delle conquiste e ciò che pare duro come roccia evapora come la naftalina negli armadi.
– Di che inganno parli, amico? E se c’è un inganno in questa lingua nostra, come puoi rivelarlo usando lo stesso strumento che ci ingabbia?
– Ora ragioni come un uomo. Non senti che tu ed io non stiamo parlando? Il nostro è un dialogo interiore.
– Bene, dunque?
– Ti chiedi cosa è vivere e se viviamo noi. Potrei risponderti che questo essere nel mondo è vivere, avere una dimensione e dividerla con la continuità esistenziale in cui sei immerso, percepire e resistere all’entropia dell’universo, essere cosmo nel disordine. Oppure, ancora, potrei istruirti su ciò che è vita e distinguerlo da ciò che è inerte, una roccia o un flutto, separare come fa la scienza l’uno dalla moltitudine e cercare il capo del garbuglio fino alla fine dei tempi. Oppure, ancora, potrei dirti che la vita è sogno, questa è la narrazione dei poeti e dei profeti: la verità è oltre la vita nella metafisica di Dio o di un palcoscenico. Potrei raccontarti tutto questo, ma non lo farò, amico.
– Respiro, questo so.
– Respira, senti l’odore del selciato umido. La notte è passata di qui. Forse un essere vivente ha bagnato d’urina questo acciottolato e quel che rimane di una bottiglia rotta ha lasciato un aroma di birra. Poi c’è la rugiada dell’atmosfera raccolta dai pochi alberi e cespugli tenuti in vita fra il macadam e la plastica. Credo che il vento leggero stia portando anche qualcos’altro: pollini lontani, afrori di uomini e bestie chiusi nei loro amori clandestini e combustibile bruciato.
– Questa è la vita?
– Non lo credere.
– Possa svegliarmi anche domani, così come ho fatto oggi.
– Non credere neanche questo.
III – Piazza dell’8 agosto
L’alba scivolava sul basolato della grande piazza col suo passo leggero e vitale. Pochi movimenti si percepivano con la coda dell’occhio: una coppia che si raccoglieva nel calore di un abbraccio e un passante in bicicletta che portava con sé la sua eco cigolante.
Davide e Giulio emisero il primo suono della giornata: uno sbadiglio e un guaito. Le fauci si allargarono mostrando gli archi dei canini e la lingua si stese a toccare l’odore dell’aria. Non si sa bene chi dei due avesse prodotto quello stridio animale, come l’aprire e il serrare una porta, ma poco importa chi fosse stato.
“Fu qui, di fronte questa statua vittoriosa, che morirono i sette di Molinella” disse uno dei senzatetto e la sua voce era un sussurro.
Qualche straccio invenduto dal giorno prima era rimasto ingarbugliato in una intercapedine lungo il marciapiede. Il vento muoveva appena quel residuo senza nettarlo. Forse era una carezza.
-Ecco lo spazio ampio delle concertazioni umane, dove ogni merce è scambiata con maniacale devozione.
– Quanta passione per il superfluo hanno gli uomini!
– Eppure, questo un tempo fu terreno di rivolte travolgenti e impeti conquistatori. Amico è l’uomo della sua storia, ne fa identità, si bagna nella sua acqua per purificarsi.
– Morti e identità. Che fretta di diventare storia!
– Altri cadaveri ha visto questo selciato macchiato di sangue. Morirono per una diversa lotta, forse più dura, nell’inverno cupo che invase questo luogo, qualche anno fa. Morirono per mano di assassini neri. Li chiamavano fasci.
– Si chiamano ancora così. Ancora c’è chi li invoca in coro.
– Anche una donna morì, veniva dal loro stesso paese. Era una mondina, chiedeva lavoro e giustizia. Ma non la ammazzarono in questa città. Altrove il suo corpo divenne nutrimento dei campi.
– La uccisero i neri?
– No, quelli li avevano travestiti da poco. Fu una guardia della democrazia. – – Non ti seguo. Cosa intendi?
– A uomini senza ideali non serve rinnegare sé stessi per cambiar pelle e tornare a guidare il Paese con slogan diversi e facce uguali. A tutti gli altri non basta credere di scegliere e votare per essere liberi.
– Quindi quella donna fu uccisa da un carabiniere sotto un governo libero
– Molti altri ne uccideranno ancora.
– Il passato è destinato a ripetersi nelle forme volute dal potere.
– Quanto mercimonio fanno gli uomini della storia!
– Esistono così? Per costruire un’identità ai prossimi che verranno?
– In un certo senso.
– Non hanno vita da vivere questi uomini?
– Non la loro.
Non si sentì che l’eco d’un guaito in quella piazza vuota e lo strascinarsi di passi logori sul basolato. Poi, il rombo di un autobus sgangherato in lontananza, coi primi viaggiatori del mattino, segnò il passaggio del diaframma: di là il tempo sospeso della gramigna che si fa spazio e germina fra le crepe del marciapiede, di qua lo stillicidio costante della frequenza di risonanza di un atomo nell’orologio.
I due cani bastardi ripresero la via verso il cuore della città, mentre la luce filtrava a raggi fitti fra le colonne dei portici serpentini. Già qualcuno sollevava le saracinesche bubbolanti di bar e negozi pronti al nuovo giorno di lavoro. Una donna stava fumando la sua prima sigaretta poggiata contro un muro scrostato, accanto a un manifesto ingiallito. Cani e uomini seguivano una rotta non tracciata e mai percorsa, decisa soltanto dal risveglio dei sensi.
– Torneremo più in questi luoghi un giorno?
– Siamo già di ritorno, amico.
Racconto di Giulio Foderà
Editing Giorgia Vullo
L’autore
Giulio Foderà è nato nel 1991 nel cuore della Sicilia. Ha studiato Lingue e culture europee, euroamericane ed orientali a Catania e ha proseguito i suoi studi a Bologna dove ha conseguito la laurea in Letterature Moderne Comparate e Post-coloniali con il massimo dei voti. Il suo amore per le lettere lo ha portato in giro per tutto il mondo. Attualmente insegna letteratura e lingua inglese presso un liceo a Monza.