Vai al contenuto

ATTIENITI ALLA TRACCIA

Opera di Silvia Farina
Opera di Silvia Farina

Un brano per accompagnare la lettura:

Brano scelto da Mattia Sonzogni, editor musicale

Dopo un lungo sbadiglio si sollevò stropicciandosi gli occhi, scosso dalla campanella della seconda ora. Il giovedì mattina era il giorno delle pulizie approfondite, così gli era stato riferito dalla segreteria scolastica.
Infondo non gli si chiedeva molto: badare che i ragazzi entrassero in file ordinate, lavare e disinfettare all’occasione, fare fotocopie per gli insegnanti e sistemare ciò che c’era da sistemare, tutt’al più di suonare la campanella in assenza del collega bidello. Ma la cosa più importante che gli si chiedeva era di non fare più cose di quelle che gli venivano assegnate.
Il giovedì lo passava in uno stato catatonico, fissando continuamente le lancette dell’orologio vicino alla rampa delle scale, e la lentezza ritmica dei secondi, lo rendeva a tratti isterico. Aveva la strana sensazione di vagare nel bel mezzo di un deserto privo di indicazioni, sempre troppo presto per il weekend, sempre troppo tardi per potersi dedicare ad altro. Una giornata dagli orizzonti invisibili. Maledetti giovedì, pensò.
Durante quel giovedì di pulizie approfondite, il corridoio del primo piano dove trascorreva le sue sei ore, era più deserto del solito. Le prime due ore svanivano irrimediabilmente tra la noia e i colpi di scopa nell’aula IIB, mentre gli alunni erano impegnati a strizzare i loro giovani ormoni sul parquet della palestra, e lui a pulire il pavimento che si sarebbe riempito di sabbia alla terza ora.
Si diresse dunque verso i bagni per cambiare l’acqua al secchio e, nella placida solitudine di quel momento, il suono tiepido dello scroscio d’acqua si mischiò alle voci indistinte provenienti dalle classi al pian terreno. Ogni particolare gli era chiaro ai sensi, dallo schiaffo dello straccio sul pavimento al rumore sordo dei neon bianchi che percorrevano la lunghezza asettica di quelle pareti da ospedale. Pareti che conosceva ormai a memoria, e il pavimento granitico di cui ricordava il numero esatto di mattonelle, e che contava ogni volta per essere sicuro fossero sempre giuste. In quel candore di tranquilla solitudine a volte si lasciava andare a pensieri confortevoli, e rifletteva su quanto fosse stato fortunato a trovare un lavoro dove gli si chiedeva così poco in cambio di un cospicuo salario. Che gran fortuna pensò, che culo.
Poi si ricordò che era giovedì: quelli proprio non li mandava giù. Arrivò a odiarli così tanto che provò a chiedere dei permessi per non essere più di turno durante quei maledetti giovedì, ma gli risposero di non pretendere troppo. Alcune volte, tra i silenzi di luoghi occupati da una o poche persone taciturne, avvertiva rumori di assoluta irrilevanza. Si trattava di sottili increspature che si rincorrevano nella quiete, capaci però di stracciare il sereno. Rumori meccanici causati dai circuiti di apparecchi elettrici, o semplici scricchiolii dati dall’assestamento delle mura o di un pavimento, in ogni caso non allarmanti, che il bidello conosceva bene. Lui che, pur abituato, si faceva cogliere impreparato ogni volta.
A un tratto, un breve sussulto lo colpì alla bocca dello stomaco, seguito da un brivido lungo la schiena. Voltatosi di scatto, arrestò lo straccio per rizzare le orecchie e, con gli occhi miopi spalancati, vide una figura luminescente che gli spiava le spalle. I cinquanta metri di corridoio erano sufficienti per tenerli distanti. A incombere su di lui era un colosso di due metri per uno, il distributore delle merendine, che troneggiava immobile e sgargiante di fianco alla porta dello sgabuzzino. Il bidello ingoiò un boccone di saliva amara. Quale esagerata reazione per un semplice scricchiolio di poco conto, pensò tra sé e sé.
Si abbandonò quindi a una risata liberatoria. Eppure quel suono nuovo, ma simile a tanti altri che aveva udito nella sua vita, riecheggiò negli anfratti della memoria come un avvertimento, una dolorosa spina conficcata nei ricordi inconsciamente localizzata chissà dove nel corpo. Che stupidaggine, era solo uno scricchiolio. Facile impressionarsi quando si è da soli.
Tornò quindi a ridere e a borbottare parole nei corridoi aspettandone l’eco per sentirsi meno solo e mettere a tacere quelle stupide paranoie. Fischiettando arrivò alla scrivania, il porto franco dove ogni bidello rispettabile riposa le stanche carni. Seduto sulla sua sgangherata sedia di legno, si mise a scrutare i passi degli alunni che si dirigevano verso il bagno, con sguardo severo e rancoroso.
Fu allora che un altro rumore, ancora più deciso e inatteso del primo, lo destò dal torpore. Lo sguardo cadde alla destra del distributore di merendine: la porta dello sgabuzzino, prima chiusa, adesso era spalancata. L’ennesimo tremore lo scosse e, con i sensi all’erta, cercò invano una voce familiare lì vicino. Di nuovo una sensazione di déjà-vu lo avvolse all’improvviso. Colto da un moto di coraggio si diresse armato di straccio e disinfettante spray alla volta della porta, totalmente inconsapevole sul da farsi e su come agire. Circospetto e guardingo, varcò l’ingresso in punta di piedi per cercare indizi, passando tra cataste di banchi, stampanti rotte, ragnatele e monitor di processori obsoleti. Che sia un animale? Magari un piccolo roditore che morsica i fili elettrici, o una blatta in preda ai suoi ultimi spasmi vitali.
Al termine del giro perlustrativo tutto sembrava calmo e immutato. Il bidello si disarmò e si mise a ispezionare un vecchio giradischi a cui mancava la puntina, le macchine da scrivere a cui mancavano i tasti, e le pile di enciclopedie abbandonate a cui mancavano le pagine, chiedendo a ognuno di essi come fossero finiti lì. Sempre a ficcare il naso in ogni anfratto, forse era per questo quel lavoro gli andava stretto. Così ridondante, così ripetitivo, mai una sensazione nuova. Che fosse il semplice brivido di un rumore a scatenargli la fantasia? In corridoi che di avvincente celavano ben poco, un brivido era riemerso grazie a un anonimo rumore, scatenando emozioni sopite, come vecchi ostaggi di una giostra dalla quale non si può scendere.
Finita l’ispezione, sereno e sollevato prese l’uscita e si accinse a chiudere la porta. Poi ancora, eccolo arrivare puntuale. L’ennesimo rumore, il terzo per l’esattezza, che in una giusta escalation narrativa di decibel risultò più ridondante e fragoroso dei primi. Il misterioso sussulto si fece largo lungo le pareti e alzò una coltre di polvere d’intonaco, colpendo oltremodo le membra appena rilassate del bidello.
Il poveretto, paonazzo in viso, si fiondò verso le scale e brandì lo spazzolone impugnandolo come fosse una lancia. Con il viso tronfio di furore, percepiva l’adrenalina scorrergli rapida lungo le vene pulsanti. Ricordi lontani e confusi ora gli offuscavano la mente, e sentiva che la ritualità dei suoi gesti era dettata da attimi di vita già vissuti. Saltò quindi tra le cataste di banchi e cominciò a portarli giù a uno a uno aiutandosi con il lungo arnese. Tra la polvere che gli riempiva la bocca e gli ostacolava la messa a fuoco, riconobbe il rosso acceso di un maniglione antipanico che sigillava una porta antincendio. Continuò imperterrito a nuotare tra le file di banchi finché non rimosse gli ultimi che impedivano l’apertura. Con lo spazzolone tolse le ultime tracce di polvere, rivelando un tappeto bianco. Erano compiti di italiano abbandonati.
Ne raccolse una manciata, e dopo averli scossi un po’ cominciò a spulciarli. Ne lesse alcuni, con i nomi e le date, sotto le votazioni in penna rossa, seguiti da alcune annotazioni e dalla firma. Non riconosceva quei nomi e le date appartenevano a un’epoca in cui lui non era ancora stato inserito nella lista dei progetti del suo buon Dio. Il fatto curioso, che gli fece saltare in gola il cuore già tremante per la tachicardia, fu scorgere tra quei compiti sconosciuti un nome a lui familiare. Per l’esattezza, il suo. Impressa dall’inchiostro sulla carta, preceduta da una votazione insufficiente, la nota a piè di pagina recava scritto: “Il compito eseguito è tutto fuorché ciò che il tema richiedeva di fare”. Che sia un caso di omonimia? E poi, perché a questo tema manca la data?

“I persuasi dall’ardere non han faccia
a me l’oblio, piuttosto che la noia.
E la porta mi si presenta sempre furiosa,
sfama e brama la mente curiosa”.


Un quarto colpo risuonò definitivo come una sentenza, simile a un pugno sferrato da un prigioniero incatenato. Il suolo sembrò sbriciolarsi sotto i piedi del bidello e la fronte, ormai madida di sudore, bagnò la pagina dissipandone l’inchiostro, mostrando così i segni di penna rossa nella parte posteriore: “La curiosità va tenuta a bada quando non è attinente alla traccia”. Impietrito, il bidello lasciò cadere il foglio. Voci appartenenti al passato riecheggiarono nella sua mente. Gli chiedevano di eseguire un compito, di non porsi troppe domande. Ma per troppo tempo aveva subito le angherie di una vita fatta solo di certezze. Preso da un fremito primordiale, spinse il maniglione rivelando le fauci dell’oblio, e cadde nel bagliore cosmico inghiottito come una pillola. Sul compito apparve la data di quel giovedì.
Dopo un lungo sbadiglio il bidello si sollevò stropicciandosi gli occhi, destato dalla campanella della seconda ora. Il giovedì mattina era il giorno delle pulizie approfondite, così gli fu riferito dalla segreteria scolastica.

Racconto di Angelo Fragnito
Editing di Martina Costanzo


L’autore

Angelo Fragnito nasce 29 anni fa a Spinazzola, un paesino racchiuso tra le carsiche terre murgiane. Ha iniziato a frequentare l’università a Bari per poi cimentarsi in mille lavori. Attualmente ricopre il ruolo di collaboratore scolastico a Modigliana, ma vive da tre anni a Bologna. Da diversi anni è alle prese con la scrittura del suo primo romanzo. Se non scrive legge, se non legge suona la chitarra o cucina pizze, esplora la natura, e a volte tenta di fare il giocoliere.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.