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Queer, “gialli” e persi: i nuovi versi di Ocean Vuong

Ocean Vuong ritorna alla poesia e scrive una raccolta – “Il tempo è una madre” – che sfrutta la forza del linguaggio per elaborare il lutto.

Il tempo è una madre (Guanda, 2023) di Ocean Vuong si apre con una poesia incipitaria (Il toro), esclusa dalle altre disseminate nelle quattro parti che compongono la raccolta. Questa zona liminare dà a Il toro un carattere di preveggenza e premessa. È di fatto un componimento-varco che introduce i temi, le urgenze e le modalità di espressione di un io (quasi sempre individuabile nella forma di uno sdoppiamento lirico dello stesso Vuong) che ha davanti a sé la necessità di attraversare il buio.

«Stava da solo nel giardino sul retro, così scuro / che la notte si è fatta viola attorno a lui. / Non avevo scelta. Ho aperto la porta / e sono uscito. […] Non volevo che fosse bello – ma avevo bisogno che la bellezza fosse più che dolore mansueto / abbastanza da poterlo abbracciare, io / allungai la mano cercandolo. Arrivai – non al toro – ma agli abissi. Non una risposta ma / un varco di entrata in forma di / animale. Come me». L’io del componimento esce in giardino, inevitabilmente attratto da questo toro elettrico e sofferente che sembra attenderlo nel retro di casa sua. L’animale è un’estensione metaforica del suo dolore. Ha cercato di espellerlo, ma la sofferenza è un fatto personale e se cerchi di farla fuori si presenta in forma bestiale e notturna a chiedere il conto. Avvicinandosi, infatti, il toro perde i contorni e sfuma nel nero, diventa abisso. Ed è dove il poeta deve entrare, perché non c’è emersione senza discesa.

La nuova raccolta di Ocean Vuong nasce infatti dall’esigenza di elaborare il lutto per la recente perdita della madre. Come nelle sue opere precedenti, la mamma e la storia famigliare diventano veicolo dei grandi temi che portano Vuong alla scrittura: crescere omosessuale e «giallo» in New England, le origini vietnamite, essere il primo della propria famiglia ad acquisire una lingua assassina – quella di chi ha buttato il napalm sui villaggi degli antenati –, «il paradosso di essere il prodotto di una guerra americana pur vivendo in America» (come recita la bandella dell’edizione italiana).

«Lo so. Lo so che la stanza in cui hai pianto si chiama / America» (Bello basso perdente). [1] L’America di Vuong è molto lontana dallo stereotipo dei grandi spazi, del viaggio come scoperta di sé. È piuttosto un luogo chiuso, una stanza appunto, e il viaggio è la riduzione della complessità, cioè la traiettoria che porta l’io dalla catalogazione (per essere compreso e disprezzato) alla semplificazione (per essere appiattito). La sua personalità viene disarticolata e scomposta dallo sguardo esterno per rientrare in macro categorie, che hanno come ultimo fine quello di schiacciare l’esistenza del poeta in un database di pregiudizio. Rabbia e diffidenza lo colpiscono tanto nella provincia della sua adolescenza quanto nell’apparente avanguardistica New York della maturità. «Ehi. / Una volta ero frocio ma adesso sono un quadratino da spuntare. […] Una volta ero frocio ma adesso sono un fico. Ah / Una volta, a una festa in terrazza a Brooklyn in cerca / di “stimoli artistici”, una tipa – che sorseggiava un cocktail – / mi ha detto: Sei veramente fortunato. Sei gay e in più puoi scrivere / di guerra e roba del genere. Io sono bianca e basta. [Pausa] Non ho / niente. [Risa, tintinnio di bicchieri]», [2] scrive in Nemmeno, poesia manifesto da cui è tratto il verso che dà il titolo alla raccolta.

Sempre in Nemmeno, però, l’America è anche quel posto in grado di tirarti fuori il pianto. Un crocevia di solitudini, di immobilità che squarciano il paesaggio che scorre fuori dal finestrino di un treno nel Midwest. E proprio dalla realtà, che riprende a intrattenere un dialogo – seppur doloroso – con l’io, comincia il processo di guarigione. «Immobilità. Ecco cos’era. / L’uomo con il maglione rosso in mezzo al prato era così / immobile da divenire, chissà come, più vero, come una ferita / da taglio in un dipinto di un paesaggio. / Come lui, sono crollato. / Sono crollato e ho deciso che d’ora in poi sarò solo gioia».[3]

La struttura della raccolta è pensata come un crescendo: si parte dalla fisicità dei primi componimenti per arrivare al tono rarefatto della quarta parte. Il quarto “capitolo”, infatti, è molto spirituale. Come una preghiera, come un rito, come l’ultima fase dell’addio. Il corpo è un portale. È martoriato, abusato, dipendente da sostanze, utilizzato per sniffare «la linea di cocaina sulla clavicola del ragazzo con il taglio mohawk in / un appartamento in subaffitto dell’East Village del 2007». [4] Ma soprattutto «questo corpo è il mio ultimo indirizzo». [5] Il “trasumanar” dell’io-Vuong è possibile solo tramite la materialità dell’esperienza. Solo sfruttando il proprio corpo come un proiettile che lacera il reale (immagine molto cara a Vuong) l’io approda a una leggerezza che sa di liberazione.

In questo senso, la lingua del poeta asioamericano è profondamente connessa agli oggetti, si appiglia agli elementi concreti intorno a lui che sedimentano i suoi ricordi e li sprigionano in forma di comprensione postuma. Di qui poesie come Cronologia Amazon di una ex manicurista, che nascono da un elenco delle cose ordinate su Amazon da questo personaggio e che diventano la cronistoria – per oggetti – di una fine. Fotografie di verso libero scattate quasi sempre nella neve (che in Vuong è annullamento, copertura) e sotto le insegne al neon nelle strade frequentatae dall’io. Strade penetrate da una grande epifania, quella che muove l’intera raccolta: «Forse ho visto un ragazzo / con un grembiule nero che piangeva in una Nissan / grande come la bara di un mostro & ho capito / che non sarei mai potuta essere etero. Forse, / come te, ero una di quelle persone che ama al massimo il mondo / quando ha il morale a terra nella sua macchina veloce / diretta verso nessun posto». [6]

Giulia Annecca


[1] Ocean Vuong, Il tempo è una madre, Milano, Guanda, 2023, p. 33.
[2] Ivi, p. 79.
[3] Ivi, pp. 83-85.
[4] Ivi, p. 81.
[5] Ivi, p. 121.
[6] Ocean Vuong, L’ultima reginetta del gran ballo della scuola in Antartide in Il tempo è una madre, Milano, Guanda, 2023, p. 65.

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